La Stampa, 18 maggio 2016
Tutti insieme goliardicamente. Ricordando il Movimento giovanile fondato nel 1946
Per fortuna arrivano due libri, perché è tutto dimenticato. Oppure mascherato sotto il termine «goliardia», in nome della quale, nell’immediato secondo dopoguerra, gli studenti universitari conquistarono San Marino coi fuochi d’artificio per insediarsi a Palazzo Ducale. Erano gli studenti dell’Ugi, dell’Unione goliardica che, con una successiva invasione, quella di Nova Gorica, la Gorizia jugoslava e comunista, e a rischio di farsi sparare addosso dai titini, cercò di imporre una nuova interpretazione della goliardia. E cioè non soltanto la spensieratezza spietata dei ragazzi in attesa dell’Addio alla giovinezza – le sartine da amare e le sbronze da prendere prima di cedere alla seriosità dell’età adulta – ma anche «la cultura e l’intelligenza», secondo la dichiarazione fondativa.
L’Ugi era nata nel 1946 sui divanetti rossi del Caffè Florian a Venezia. Era un network degli ordini goliardici istituiti via via che avanzava la Liberazione, avevano nomi come Ordine del Pesce alato (a Napoli) o del Fittone (a Bologna, in riferimento al gran paracarro all’ingresso dell’università) in sfacciata allusione alla virilità degli aderenti. E in effetti la prima bozza dell’Ugi si chiamava Federazione Italiana Goliardica Autonoma, il cui acronimo suggeriva una perfetta complementarità a pesci alati e fittoni.
Per i più giovani la liberazione era quella: in Italia erano arrivati gli americani con il jazz, il boogie-woogie, il loro cinema, si respirava l’aria del mattino dopo la lunga notte fascista, la libertà di aggregarsi, di discutere di politica, di essere anche un po’ pirla in contrapposizione all’oppressiva e ridicola pompa in camicia nera («Se lo sport è salute, viva la tisi»). Così le rare volte in cui si ricorda la goliardia è per aggiungere fantasiosi dettagli sul sequestro di Joséphine Baker, trasportata contro la sua volontà a Napoli per uno spettacolo universitario, o sull’intervento di Lino Jannuzzi travestito da vietnamita che porta i saluti di Ho Chi Minh a un congresso socialista (sarà smascherato da Pietro Nenni). Ieri, però, alla biblioteca del Senato in piazza della Minerva a Roma, sono stati presentati due libri appena usciti, L’Unione goliardica italiana 1946-1968 di Piero Pastorelli (Clueb editrice) eCinquantottini di Vittorio Emiliani (Marsilio), incaricati di restituire spessore a una storia.
Nell’Ugi erano entrati laici, socialisti, radicali, liberali, libertari, anticlericali, e cioè tutto quel frenetico e composito mondo anticomunista e antifascista che attirò le simpatie di Ignazio Silone. I goliardi erano europeisti, leggevano Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, erano gobettiani, salveminiani, gridavano «fuori i partiti dall’Università» non nella declinazione furbina arrivata fino ad Alfio Marchini, ma nell’idea che la discussione politica sfuggisse alle logiche ciniche delle strutture partitiche.
Come si racconta nell’introduzione di Cinquantottini - voluta antitesi al mito dei Sessantottini – uno degli ultimi leader della goliardia, il socialista Gino Giugni, disse in un’università americana che la migliore scuola politica d’Italia fu l’Ugi. E in effetti da lì sono transitati Bettino Craxi e Achille Occhetto, Gianni De Michelis e Stefano Rodotà, Piero Barucci e Aldo Brandirali, Paolo Flores d’Arcais e Valentino Parlato, Luciana Castellina e Claudio Petruccioli, Fabrizio Cicchitto e Franco Piperno, e cioè gli approdi anche più dissimili, e naturalmente l’intera leadership radicale, da Marco Pannella a Gianfranco Spadaccia a Massimo Teodori a Franco Roccella, non essendoci nulla di più seriamente goliardico che portare divorzio e aborto nel paese della Chiesa.