La Stampa, 18 maggio 2016
Il piano dell’Italia per l’Africa
Ci sono solide ragioni economiche al centro del rinnovato interesse dell’Italia per l’Africa. Dopo una lunga fase di totale disinteresse – interrotta dal fugace picco degli stanziamenti per la cooperazione internazionale negli Anni 80, e dalla mediazione di pace conclusa con successo in Mozambico negli stessi anni – l’Italia sembra finalmente aver preso coscienza del fatto che l’Africa oltre a essere un continente ancora povero e con gravissimi problemi è anche una grandiosa opportunità economica. Con una popolazione giovane e in crescita, proiettata a quota 2 miliardi entro il 2050, preziose materie prime, e una economia in espansione.
A dire il vero il 2016 – così come il 2015 – non pare un anno particolarmente positivo per l’economia del Continente Nero. A pesare negativamente sono state l’instabilità politica e la siccità provocata dal riscaldamento globale in Africa orientale e meridionale, ma soprattutto la riduzione della domanda di materie prime, a partire da petrolio, metalli e minerali. Il responsabile immediato è la Cina: la sua economia ha rallentato, ha ridotto le importazioni, e quasi subito le miniere dei Paesi africani hanno cominciato a tagliare il personale. Meno entrate in valuta pregiata, meno gettito per le finanze pubbliche, e tante valute dei Paesi dell’Africa subsahariana hanno perso fino a metà del loro valore. La maggior attenzione della politica italiana all’Africa si è trasformata anche in una maggiore attenzione delle imprese al mercato africano. Che si è vista nell’aumento delle esportazioni. I dati relativi al commercio con l’estero del 2014 registrano un più 8,9% sull’anno precedente nelle esportazioni italiane di merci, con un volume complessivo giunto a quota 6,8 miliardi di euro, e un saldo che, complice l’avvio del calo del greggio, riduce da -2,6 miliardi a -2 miliardi il deficit commerciale che storicamente l’Italia registra con una Regione da cui importiamo soprattutto energia ed esportiamo (finora) molto poco.
L’Africa subsahariana è in lenta ma costante crescita come percentuale sul totale dell’export italiano, dall’1,2% all’1,6% nel decennio 2004-2014, seppur con scambi che restano inferiori non solo a quelli della Germania, ma anche di Francia o Regno Unito. Numeri che la politica italiana e la diplomazia della cooperazione internazionale, affidata al viceministro Mario Giro, vorrebbe certamente aumentare in modo significativo in tempi rapidi.
Certamente, però, non è solo questa la ragione dell’interesse italiano per quello che avviene sulle opposte sponde del Mediterraneo. Nel corso della due giorni alla Farnesina si parlerà anche delle recenti proposte del premier italiano Renzi mirate a mettere sotto controllo i flussi migratori attraverso il cosiddetto «migration compact», teso a sostenere la crescita e lo sviluppo dei Paesi generatori di flussi di migranti con speciali finanziamenti sostenuti dall’emissione di obbligazioni europee. In realtà, dicono gli esperti, la maggioranza dei flussi migratori in Africa sono interni al continente, con persone che si spostano da un Paese africano all’altro: nel 2013 dei 31 milioni di africani che si sono allontanati dal proprio Paese ben 18,6 sono rimasti nel Continente, spesso profughi, rifugiati e sfollati interni. Resta il fatto che i numeri di questa migrazione sono importanti, e che un terzo degli emigrati africani proviene dall’Africa Settentrionale. Un’area dove vive solo un quinto della popolazione totale dell’Africa e da cui è emigrata in media una persona ogni 20 in questi anni. Un dato significativo per l’Italia, che ha accolto circa un milione di persone – un quinto di tutti i residenti extracomunitari – che provengono proprio da 4 Paesi del Nord Africa: Marocco, Tunisia, Egitto e Senegal.