la Repubblica, 18 maggio 2016
Pedro Almodòvar racconta la sua vita in Technicolor, dalle donne della sua vita ai Panama Papers
«Ogni film è lo specchio della vita interiore. Il mio cinema invecchia insieme a me». Durante la conversazione Pedro Almodóvar ripete come un mantra il concetto del tempo che passa. Cita Roth: «La vecchiaia non è una malattia, è un massacro». Dopo anni di conversazioni al buio per un problema di fotosensibilità, l’incontro per parlare di Julieta, il film su una madre alla ricerca della figlia, è in una terrazza assolata che affaccia sul Palais.
Almodóvar, a Cannes lei viene solo se è in concorso.
«Non resisto all’eccitazione della gara. Il ricordo più bello è stata la mia prima volta: quando vinsi per la regia di Tutto su mia madre. Mi chinai e baciai per terra, come faceva Giovanni Paolo II in giro per il mondo».
Stavolta eccola con “Julieta”, tratto da “In fuga” di Alice Munro.
«Quel libro mi ha accompagnato per anni. Ho adattato la storia alla realtà, alla famiglia spagnola. La Murno è stata una casalinga con quattro figli che poteva scrivere solo di notte. Un po’ come me. Mi piace il fatto che alla fine della storia i suoi personaggi siano sempre più misteriosi che all’inizio».
Rispetto al libro lei ha messo al centro il senso di colpa. È il suo?
«Sì. Un senso di colpa laico. Ho studiato dai salesiani, i peggiori, ma poi ho superato quel retaggio. Però credo che nella vita, solo gli stupidi o gli psicopatici non provino sensi di colpa. Una madre abbandonata si dà la colpa e questo sentimento la rende vulnerabile».
Diversa dalle donne forti del suo cinema.
«Molto. Le madri dei miei film precedenti erano eroine piene di forza. Come lo sono state le donne nella mia vita, che hanno vissuto negli anni 50 e hanno dovuto lottare. Mia madre era costretta a vestire di nero. Anche quando sono stato concepito. Forse per reazione, il mio immaginario è sempre stato in Technicolor. Sono figlio dei 70, dell’arte Pop».
“Julieta” è più austero, sobrio.
«Sì. Non saranno tutti così. Ma quelle commedie esuberanti che giravo negli anni 70 oggi mi risulterebbero difficili. Invecchio, e con l’età privilegio l’interiorità. Tra gli anni 70 e i 90 la mia vita è stata un tourbillon, una continua festa, notte e giorno si confondevano. Ora il tempo è scandito in mattina, pomeriggio, e una lunga notte per dormire. Coltivo la mia via interiore, sono spesso in casa, vedo poca gente. I film sono cambiati con me».
Vede mai le sue opere di quei tempi?
«Solo quando passano in tv. E allora mi sento molto orgoglioso. E mi dà allegria sentire gli altri parlarne».
Sono la sua autobiografia.
«L’unica: ho chiesto che nessuno scriva libri su di me. L’ho anche messo nel testamento».
Oggi è felice? E il Pedro degli anni esuberanti lo era?
«Non lo so, non credo. Ci sono ancora momenti di felicità. Non uno stato continuo ma una sensazione epidermica, una brezza fresca che ti avvolge. Ma non sono più infelice, sono solo più vecchio. Ho nostalgia della gioventù, ma col tempo ho imparato la lezione. Soprattutto quella della salute: per scrivere e girare film devi averla, pensare di perderla mi terrorizza».
Come si supera il senso di colpa?
«Con gli ansiolitici. Il modo migliore sarebbe chiacchierare con altri esseri umani, ma sono più ermetico di ciò che vorrei. Lo sono sempre stato».
Rimpianti?
«Nessuno. È un altro sentimento cattolico. Avrei potuto vivere una vita migliore? Certo, ma è bene riconoscere le cose che esistono, sapendo che ce ne sono altre da vivere ancora».
La vicenda dei Panama Papers le ha cambiato la vita?
«Non l’ha cambiata, no. Ma è stato tremendo, anche perché davvero non sapevo niente di niente. Non mi sono mai occupato delle questioni economiche e non c’è una causa contro di me. Quel che mi ha fatto soffrire è come mi hanno ritratto i media. Come fossi il protagonista della storia, quando in realtà ero solo una comparsa, un figurante muto. In Spagna c’è stata una campagna contro di me di sei settimane, una commercializzazione dell’informazione che mi ha fatto soffrire».