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 2016  maggio 18 Mercoledì calendario

Cosa resta del Ku Klux Klan

Croci infuocate, matrimoni e odio razziale: dal Maryland al Tennessee, gli ultimi affiliati del KKK sperano nella vittoria del tycoon
Piccolo, ma velenoso come una vipera nascosta sotto i cappucci bianchi, il serpente delle tre K si scuote dall’ibernazione in questo 2016 di derive politiche e trova nel nome di Donald Trump la speranza di mordere ancora.
Fatto di donne e uomini qualsiasi, nell’eterna reincarnazione della normalità che si distilla in odio razziale e si rifugia nello squallore delle carnevalate in costume, di ragazzine bendate da loschi vecchi in cerimonie di iniziazione, l’ultimo Ku Klux Klan languiva dopo la fiammata degli anni Sessanta. Confinato negli Stati del Sud Est più segreto, dove vivono i forse 8 mila “cavalieri incappucciati” che ancora sognano la purificazione razziale del loro squallore, mentre disperatamente strappano un’esistenza a campeggi e vecchie Buick scalcagnate. Ma il Klan non si è mai estinto. È sopravvissuto ai margini della società americana, esiliato nelle contee rustiche, negli acquitrini del grande Delta, più ferino che feroce come narrano queste immagini, aspettando l’avvento di un nuovo messia che riprendesse la voce degli irriducibili suprematisti bianchi.
Nella modestia dei propri numeri e della propria esistenza, nella polverizzazione dei gruppuscoli sparsi in una dozzina di stati dalla Florida all’Arkansas, dall’Alabama al Tennessee, il Klan non è una forza elettorale capace di estendere la propria influenza oltre le Primarie, dove i pochi sembrano molti nell’illusione ottica dei piccoli numeri. Non possono spostare le elezioni generali per la Casa Bianca, misurate in decine di milioni. Ma i cavalieri delle croci infuocate e dei cappi lanciati sui rami per i linciaggi, che cominciarono a galoppare dopo il 1865, creati dai “boia chi molla” sudisti sconfitti nella Guerra civile per “rimettere al loro posto” quei “negri emancipati” sono l’avanguardia di una carovana disperata e nascosta nella foresta dei monti e dell’anonimato. E trovano oggi nei musulmani e nei latinos, come ieri nei cattolici, negli ebrei, nei neri, nei “non bianchi protestanti”, l’alibi per i loro fallimenti di uomini e donne. Il KKK, che pare debba alla parola greca Kyklos, circolo, le proprie kappa, è la spia di ciò che dorme sotto l’apparenza ciarlatana del candidato accidentale del partito Repubblicano, che fu di Lincoln.
L’investitura data a Trump da uno dei suoi “Grandi Maghi” e già effimero candidato alla Casa Bianca, David Duke, ha ufficializzato l’adesione degli incappucciati all’ideologia trumpista, che The Donald riassume in quelle quattro parole, “Make America Great Again”, facciamo l’America di nuovo grande, all’apparenza innocua, ma in codice significa: ripuliamo l’America da meticci, neri e stranieri e cancelliamo l’onta di quel mezzosangue africano che ha usurpato lo Studio ovale. Non ci possono essere smentite, nè rifiuti, che pure Trump, dopo aver spudoratamente detto di non avere mai sentito nominare Duke, ha opposto in un soprassalto di vergogna, che possano incrinare il disperato, velenoso entusiasmo degli ultimi cavalieri della notte rimontati in sella per seguire The Donald. Che lui sia l’esatto opposto di quei profughi a mano armata dell’America rurale che lo adorano, lui il newyorchese sbruffone, miliardario, bancarottiere, lupo alfa cacciatore di lupe di ogni branco, non li turba. Il nemico comune,“l’altro”, il non bianco, il non americano, giustifica la nuova carica dei poveri lancieri del KKK in guerra con un passato che sognano di riscrivere.