la Repubblica, 18 maggio 2016
La storia di Gildo Andreoni, il minatore che salvò una famiglia di ebrei
Qui, la storia degli ebrei salvati da Gildo la conoscono tutti. Corre veloce come il vento che in certi giorni taglia l’antica Val di Lamola a 239 chilometri orari, «l’abbiamo misurato, dèh?». Trentacinque abitanti, e la conoscono tutti. La conosce l’ultimo coltivatore diretto Marcello, che quando vien giù la neve passa col trattore e la spazza via. La conosce la professoressa Caterina Muzzarelli che l’ha fatta recitare a scuola e poi l’ha portata anche a Roma. La conosce la signora Rosa, 87 anni e ancora taglia la legna, la conosce perché l’ha vista con questi occhi acquosi come il torrente: «I quattro ebrei me li ricordo benissimo, stavano nascosti lassù, nella casa di Gildo che adesso è la casa di Gioiello, suo figlio. Andate un po’ a vedere». E fa segno col dito come se indicasse il paradiso, o soltanto il prato pieno di fiorellini gialli.
«Sediamoci sotto il castagno, questo qui ha almeno cinquecento anni. Sediamoci che vi racconto». Fa ancora freddo, sotto il monte Spigolino con i pennacchi bianchi. Gioiello Andreoni, figlio di Gildo il minatore che salvò gli ebrei, mostra il filo spinato che ha appena attorcigliato per proteggere un nido dai gatti, poi comincia a narrare la storia che qui è di tutti. Il borgo si chiama, non a caso, Ospitale. «Era il novembre del 1943, mio padre era appena rientrato dalla Russia mezzo congelato e aveva deciso di disertare. Una sera bussa alla porta il parroco, don Giovanni Ricci, proprio quella porta lì. Con lui ci sono un uomo, una donna e due bambine piccole». Erano Cesare e Carla Valabrega, musicisti bolognesi, con le bimbe Benedetta di nove anni e Mimì di uno. «Il parroco chiese a mio padre di ospitarli, papà capì subito che si trattava di ebrei. Lui, sua madre Elisa e sua sorella Rosa non ebbero dubbi». Li fecero salire la scala di legno, li sistemarono in una stanzetta e sperarono in bene. «Poco tempo dopo, le guardie repubblichine arrestarono mio padre e lui si fece prendere in giardino, perché nessuno scoprisse i Valabrega». Anche se tutti, in paese, sapevano. Ma nessuno parlò.
Quasi niente da allora è cambiato, se non il silenzio sempre più profondo e il vuoto sempre più ampio. La borgata fantasma ha una casetta di pietra sotto gli alberi, “Casa Gioiello”. Il castagno quasi se la mangia. «La famiglia Valabrega era protetta da un senso di accoglienza collettivo che non aveva bisogno di tante parole. Carla andava a messa per far finta di essere cattolica, Cesare scriveva il suo libro su Bach passeggiando nei prati, le bambine crescevano». Finché di nuovo bussano alla porta, ed è l’ottobre del ’44. Stavolta a picchiare sul legno è il padre del prete. «Guardò Gildo e gli disse: ci volete far bruciare tutti in casa dai tedeschi! Cesare Valabrega svenne. Dopo qualche giorno decise di fuggire a piedi sui monti, per non essere più un rischio per tutti. Lui, la moglie e le figlie salirono verso la Linea Gotica in una notte di bufera e riuscirono a passare dall’altra parte. Si salvarono tutti».
La guerra finisce, i Valabrega si trasferiscono a Roma e continuano la carriera musicale, Gildo riprende a scalpellare miniere e gallerie in Francia e dentro l’Appennino. Poi muore. È il 1981. «Dopo 60 anni, un’impiegata del comune di Fanano mi dice che una signora da Israele vorrebbe mettersi in contatto con noi». Si tratta di Mimì che nel frattempo si è sposata, ha lavorato in un kibbutz insegnando ad accudire i cavalli e non ha mai dimenticato la famiglia italiana alla quale deve la vita. «Mimì aveva deciso che mio padre, mia nonna e mia zia fossero dichiarati Giusti tra le Nazioni e ci chiese la documentazione necessaria. Andammo da un notaio che raccolse le testimonianze in un atto ufficiale, lavorando gratis, e quindi mandammo tutto in Israele. Il 29 luglio dell’anno scorso, l’ambasciatore è venuto fin qui a consegnarci l’attestato e la medaglia». La medaglia è tra le mani di Gioiello che la mostra nel riverbero della stufa accesa, l’attestato è appeso al muro appena entrati, oltre la famosa porta picchiata due volte in due sere di guerra, la prima per disperazione, la seconda per paura. C’è scritto che la Commissione per la designazione dei Giusti dello Yad Vashem concede il riconoscimento a Elisa Muzzarelli, la mamma, e ai figli Gildo e Rosa Andreoni. Tre alberi sono piantati nel giardino dei Giusti a Gerusalemme e portano i loro nomi. «La mia famiglia non si è mai vantata, per tanti anni non se n’era più parlato. Io sono stato sindacalista della Cgil ma non comunista, sempre socialista, dunque minoritario: non volevo usare quell’episodio per gloriarmi, per scalare posizioni nella considerazione generale. E poi il bene si fa, non si dice. A parte che non l’avevo fatto io, e non so proprio se avrei avuto il coraggio di mio padre». Un piccolo uomo come tanti, Gildo Andreoni che fu Giusto e non lo seppe.
«A 11 anni già lavorava in miniera portando l’acqua per dodici ore al giorno. Ha faticato sempre, come suo padre e come suo nonno scalpellino, il mio bisnonno Gioiello».
Sull’architrave d’ingresso, una madonna scolpita nella pietra schiaccia la testa al serpente. «L’ha fatta lui, il bisnonno». Nulla di eccezionale se non tutto, in questo angolo di montagna modenese dove la storia è passata senza rumore. L’accoglienza come gesto naturale, nelle terre dove il duca Anselmo del Friuli, diventato monaco (e poi Sant’Anselmo) fondò l’Ospizio di Fanano da cui il nome del borgo: Ospitale. A volte le parole custodiscono un destino.
Gioiello tira fuori gli album, le fotografie, i ritagli. Quella volta che qui venne a cena Guccini, amico di amici, «e svuotò la cantina cantando fino a notte ma nessuna canzone delle sue». C’è anche un libretto scritto dalla moglie Lidia, che parlando con i parenti e gli abitanti del luogo ha ricostruito l’albero genealogico della sua famiglia, e ha così scalato otto generazioni. La storia non hai mai niente di vecchio, sta immobile ma è viva, proprio come il cinquecentenario castagno nell’immagine che Gildo ha appena aperto sul computer. Si vede un sacco di gente attorno alla pianta. «La foto l’abbiamo scattata il giorno della premiazione, quando i discendenti dei Valabrega si sono uniti a noi: tra nipoti e pronipoti erano ventisette e venivano dall’Italia, dalla Svezia, dagli Stati Uniti e naturalmente da Israele». Mimì li ha radunati sotto il gigantesco albero e ha detto «grazie Gioiello, senza tuo padre Gildo nessuno di noi sarebbe qui». Un poco sembrava l’ultima scena di Schindler’s List, la processione di un’intera stirpe sulla tomba dell’uomo che la rese possibile. E forse è proprio vera quella cosa che se salvi anche una sola vita, le salvi tutte. Anzi, è molto di più. Perché Gildo ha salvato la vita che ancora non c’era.