Libero, 17 maggio 2016
De Sica che con un film salvò mille ebrei dalla deportazione
Se uno parla di Vittorio De Sica a un giovane nato dopo il 1974 si sente inevitabilmente rispondere «De Sica chi? Il padre di Christian?».
Il che è ingiusto, è crudele, diciamo pure ignobile che uno dei più grandi registi non solo nostrani venga oggi ricordato perché il figliolo ha avuto ogni Natale successo coi cinepanettoni. Però era inevitabile. Il tempo livella tutto. A ricordare De Sica senior rimangono i film (una trentina diretti e quasi un centinaio interpretati). E le testimonianze di chi c’era quando il Vittorio da Sora vinceva gli Oscar e imperversava come charmeur le spettatrici di almeno tre generazioni. Giancarlo Governi c’era e ha biografato più volte De Sica in libro e in tv. L’ultima story è stata recentemente rieditata da Bompiani col titolo Vittorio De Sica un maestro chiaro e sincero (pp 188, euro 13) e nella sua esiguità -solo 118 paginette sono biografia, il resto è filmografia- contiene aneddoti non tutti conosciuti anche dagli addetti ai lavori. Come il rapporto padre- figlio che lo legava ad Alberto Sordi. Come le grane coi piani alti della Chiesa (l’Osservatore romano l’ebbe sempre in gran dispitto i suoi film neorealisti ). Come fu che decise di darsi alla regia. Decisione che non avvenne per ispirazione del cielo, ma dopo la prima feroce stroncatura meritatissima come attore: l’avevano voluto per Manon Lescaut ma che c’entrava lui con l’avventuriero settecentesco Des Grieux?. Un’incazzatura per la stroncatura. L’intuizione fulminea che la sua vita doveva essere dietro la macchina da presa e non davanti. Ma ci pensate? Senza le pesanti legnate apparse sulla rivista Cinema allora diretta da Vittorio Mussolini non avremmo avuto Umberto D. e La ciociara, L’oro di Napoli e Ieri oggi domani.
Ma tant’è.
Governi smentisce in parte la leggenda del «latte e del caffè». Lui e Cesare Zavattini erano paragonati al cappuccino (difficile distinguere gli ingredienti). Macchè difficile. Zavattini era il colto, il geniale, quello che aveva le idee folgoranti. De Sica quelle idee le sapeva trasformare in grande spettacolo. E grandi spettacoli continuò a farne quando fu chiaro che l’apporto era Zavattini era diventato solo professionale, che le grandi idee erano morte dopo il tonfo del Tetto nel 1957. Il padre di Christian. Un ricordo che forse sopravvive grazie agli exploit cinepanettoneschi del figlio. E allora è il caso di dare un’ulteriore spinta alla sopravvivenza. Ragazzi arrivati nell’ultimo quarto di secolo, sappiate che il padre di Christian è stato uno dei primi dieci registi nostrani di cinema. Ha preso tre Oscar, ha sbancato i botteghini con i film della Loren, ha reinventato con Sciuscià il cinema italiano, quando l’Italia era sotto le macerie.
Come direttore d’attori ha avuto pochi uguali. Scrisse 50 anni fa un collega che Sophia Loren era una gigantessa con De Sica (erano i tempi della Ciociara e Ieri oggi domani) e una nana con gli altri. Quasi vero (per camminare da sola Sophia ci mise parecchi anni). «Sa far recitare anche i sassi» scrissero. Vero, vero e sapete perché? Perché essendo stato attore, degli attori sapeva pregi e difetti, quando assecondarli e come tenerli briglie strette. Come attore fu grandissimo anche se di buttò via con troppe macchiette afferrate per ragioni alimentari (il vizio del gioco lo mandava puntualmente in bolletta). Ma per valutarlo basta il ricordo del Generale della Rovere. Un abbietto imbroglione che si presentava come un principe. Il confronto con Pierfrancesco Favino che è stato Della Rovere in anni recenti è la prova del nove (un attore simpaticissimo e bravissimo che però di principesco non avrà mai nulla). Non molti sanno che nella vita De Sica è anche stato un eroe all’italiana, nella Roma del 1944. Uno Schindler, un Wallenborg salvatore di vite (quasi mille ne salvò) un simulatore di drammi costretto a recitare sul serio. E a recitare bene. L’occasione fu La porta del cielo un film voluto e finanziato dal Vaticano. A Roma comandavano i tedeschi e i fascisti. Chi non poteva esibire un visto di lavoro poteva essere deportato. Se era cineasta era costretto a partire per Venezia a lavorare per i film della Repubblica di Salò. De Sica che aveva già dato ottima prova con I bambini ci guardano fu designato da monsignor Montini (Il futuro Paolo VI) a generale del piccolo esercito che si era radunato nei teatri di posa (ma anche nelle chiese nelle piazze della capitale), tra loro ebrei e perseguitati politici. De Sica non solo ebbe a disposizione il più bel cast di un film italiano da decenni (Marina Berti, Massimo Girotti, Carlo Ninchi, Roldano Lupi) ma dovette giostrare un’immensa troupe di volontari. Nessuno voleva rischiare la deportazione. Le chiese erano diventate accampamenti, il Lungotevere un pubblico dormitorio. Per l’unica volta in vita sua De Sica ebbe la consegna di non abbreviare i tempi di lavorazione, ma di allungarli. Finchè a Roma non fossero arrivate le truppe americane. Un’impresa titanica. Amministrare per mesi e mesi il gran bordello nella Basilica extraterritoriale di San Paolo fuori le Mura, e tirar fuori almeno un film dignitoso. Più che dignitoso. Tanto da meritare l’approvazione del producer cioè Pio XII. All’anteprima in Vaticano, Papa Pacelli alzò la diafana mano e sussurrò: «Molto bello». Sorvolando sulla chiusa certamente «laica» infilata all’ultimo dal comunistissimo Cesare Zavattini.