La Stampa, 17 maggio 2016
Ernesto Ferrero racconta i suoi diciott’anni da direttore del Salone del libro, tra incontri, sorprese e corse in ospedale
Tra le tante cose di cui sono grato al Salone è quella di avermi fatto conoscere in questi diciotto anni alcuni grandi personaggi, e di scoprire che quanto più sono grandi, tanto più sono semplici e diretti. Non divi, ma amici ideali.
Uno dei primi ricordi risale al 2000. Avevamo appena deciso di dedicare il 5° Padiglione ai bambini, e nei giorni dell’allestimento scopro un distinto signore in maniche di camicia, mitemente canuto, dai tratti vagamente orientali, che maneggiando un grosso rullo dipingeva coscienziosamente una parete con un bel verde pastello. Era il grande poeta del colore Emanuele Luzzati, e faceva l’imbianchino senza problemi.
Due anni dopo arrivò George Steiner, e fece una memorabile prolusione invitando i giovani ad avere il coraggio delle loro passioni intellettuali. La serata inaugurale all’Auditorium prevedeva un concerto di un rock molto duro. La violenza dei suoni ferì le orecchie del grande maestro. Lasciò sdegnato la sua poltrona, lanciandosi verso l’uscita vanamente inseguito da me, e mormorando: «Sono dei nazisti! Sono dei nazisti!».
Nel 2004 si festeggiarono i 50 anni della Rai. Con Baudo e Arbore, chi prese subito in mano la situazione fu il signor Mike: maniacalmente professionale anche nei minimi dettagli, come le rituali foto di gruppo, che dovevano essere organizzate secondo rituali precisi, ovviamente stabiliti da lui.
Un anno arrivò una figlia di Che Guevara. Non aveva molto da raccontare, era ancora bambina quando il padre se ne partì per la Bolivia, eppure l’applauso che la accolse nella Sala dei 500 non finiva più, anzi continuava a salire d’intensità, come a dirle quanto l’icona del Che fosse ancora viva e anzi rinnovabile nella fissità del mito.
Ci sono state anche le emergenze. Il 2008, l’anno di Israele Paese ospite d’onore, le contestazioni, i cortei e gli scontri in via Nizza, le polemiche che ci regalarono a costo zero una campagna pubblicitaria su scala mondiale. Finimmo perfino sul New York Times. Vai a spiegare ai contestatori che avevamo invitato autori per lo più critici con il governo, che la letteratura non risponde ai governi, è la vera patria di tutti, palestinesi compresi. Per fortuna poi il presidente Napolitano venne a inaugurare, con uno dei suoi tanti gesti lungimiranti di vero statista. Oppure può accadere che Gore Vidal, costretto a muoversi in carrozzella, si ribalta nella hall del Méridien, e bisogna correre in ospedale.
Poi ci sono le sorprese divertenti. Philippe Daverio entra in sala per una delle sue travolgenti conversazioni ostentando un cono di gelato sgocciolante che stava lappando gustosamente. Douglas Hofstadter, filosofo della scienza, tra i massimi studiosi di intelligenze artificiali e di stadi della coscienza, mi aveva chiesto di organizzargli un incontro al Salone con Altan, perché sua figlia era cresciuta con la Pimpa, di cui era egli stesso un estimatore. Telefonai ad Altan, uomo notoriamente schivo e riservato, e la richiesta lo sorprese molto, quasi lo preoccupò. Alla fine acconsentì, e ne è nacque un dialogo pirotecnico tra linguaggi diversi, a dimostrazione che arte e scienza sono sorelle.
Tanti gli indimenticabili. Wislaswa Szymborska, antropologa della quotidianità, con la sua aria di vecchia zia gentile, che nasconde sotto un sorriso indecifrabile lo sguardo pietoso di chi conosce ogni miseria umana.
Quest’anno l’incontro forse più toccante. È stato quello con Antoine Leiris, il giovane giornalista francese che nella strage del Bataclan ha perso la moglie, ed è stato capace di scrivere ai terroristi: Non avrete il mio odio.