la Repubblica, 17 maggio 2016
Alla Scuola Superiore della Magistratura sono entrate più donne che uomini e senza quote rosa: «Siamo più brave»
Scandicci (Firenze) Carlotta, Luisa, Marina e le altre salgono con fierezza lo scalone che porta alle aule di Castelpulci, ultimi gradini di un percorso che avevano iniziato in 20mila e hanno chiuso in 311. Qui faranno il tirocinio per diventare magistrate, anche se il concorso l’hanno già vinto: 311 nuovi giudici, 188 donne. Una percentuale ancora più alta rispetto ai numeri generali della professione: oggi, su 9.224 magistrati le donne sono 4.719, più o meno il 51 per cento. Niente quote rosa. «Siamo semplicemente più brave».
La villa bianca in cima alla collina era un manicomio. Qui morì Dino Campana, il primo marzo del 1932, qui dal 2012 ha sede la Scuola Superiore della Magistratura. Vanno e vengono le navette, croccano i tacchi sulla ghiaia. Eppure, fino al 1965 in Italia non esistevano donne magistrato, la Costituzione non lo permetteva «per incapacità fisica e mentale nella difficile arte del giudicare». Lo sostenevano i padri costituenti, nemmeno un po’ madri.
«Pensarlo adesso è incredibile», dice Carlotta Brusegan che arriva da Mestre, ha 31 anni e lo sguardo di chi sa cosa vede, laggiù in fondo ad anni di studio matto e disperatissimo. «Invece le donne possiedono maggiore tenacia e determinazione, sanno correre la maratona necessaria ad arrivare qui, un’autentica prova di forza». Annuisce Luisa Bettiol, padovana, 29 anni. «Le quote rosa non ci interessano, facciamo da noi. Dopo avere passato anni sui libri per dodici ore al giorno, feste e domeniche comprese, deve contare solo il merito». Eppure, la maggioranza numerica non è tutto. «Nei ruoli direttivi ci sono ancora troppe poche donne, forse perché costrette a sacrificare alla carriera un po’ della loro vita famigliare», dice Marina Righi che viene da Perugia e ha 35 anni. «Ho passato il concorso al secondo tentativo, qui ci sono anche mamme che frequentano la scuola con i bimbi da allattare, loro sì wonder woman».
Dal dopoguerra, solo dieci donne sono state nominate al Consiglio Superiore della Magistratura. Tra loro Luisa Napolitano, che ora fa parte del direttivo della scuola di Scandicci, nove uomini e tre donne. La dottoressa non le manda a dire: «Siamo più brave, più decise, ormai sempre in testa nei punteggi del concorso. Ma quanta fatica per arrivarci. Quand’ero al Csm, non pochi colleghi maschi riuscivano a presentarsi in ritardo e magari erano di Roma, e io che mi ero fatta il viaggio da Treviso non sgarravo di un minuto. Poi, pretendevano la pausa pranzo: non dovevano mica conciliare nulla, loro. Non avevano bambini da accudire a casa. Mi sono ribellata, spiegai che una donna non ha tempo da perdere e alla fine capirono». E magari avrà anche ragione il ministro della Giustizia quando scrive «si sta rompendo il tetto di cristallo che impediva alle donne l’accesso alla guida degli uffici giudiziari», ma in quei ruoli c’è ancora troppa differenza tra i sessi. «Non qui a Firenze, dove validissime colleghe sono al comando della Corte d’Appello (Margherita Cassano), del Tribunale (Marilena Rizzo), del Tribunale di sorveglianza (Maria Antonietta Fiorillo) e della Procura dei minori (Laura Laera). Invece al Csm c’è attualmente una sola giudice togata: purtroppo il ruolo di madri e mogli continua a penalizzarci e spesso scattano meccanismi di autoesclusione».
Però Carlotta, Luisa, Marina e le altre non dovranno più essere guardate dagli imputati e dai colleghi prima come donne, poi come giudici, com’è invece accaduto per decenni. Lo raccontarono le otto pioniere entrate mezzo secolo fa in ruolo, e in quelle occhiate c’erano diffidenza, pregiudizio, paternalismo, ostilità. «Nessuno ci fa mai sentire così, per fortuna», dice Carlotta. «Anzi, per la prima volta in vita mia mi sto sentendo nel posto giusto, il mestiere già mi elettrizza». L’orgoglio di queste ragazze è anche la consapevolezza dei numeri che raccontano la loro scalata: circa 20mila iscritti all’ultimo concorso per diventare magistrati, 8mila si sono presentati allo scritto, 3.400 quelli che lo hanno consegnato (soltanto tre tentativi ammessi), 311 vincitori per 365 posti. Dunque, una cinquantina sono rimasti non assegnati. Quelli e soprattutto quelle che ce l’hanno fatta, sono attesi da 18 mesi di tirocinio dopo almeno una decina d’anni di studio: un anno negli uffici giudiziari e 6 mesi qui a Scandicci. Poi, nell’autunno nel 2017 entreranno finalmente in ruolo e potranno scegliere la propria sede secondo le graduatorie che dipendono, per lo più, dai voti del concorso. Dunque non ha sbagliato, Carlotta, a parlare di maratona: «Non mi spaventano i sacrifici dopo averne sostenuti tanti. Diciamo che mi sento portata».
Un giorno, chissà, anche lei potrà pigiare il bottone dell’ascensore del Palagiustizia di Firenze e arrivare al nono piano, dove l’ufficio del Presidente della Corte d’Appello è inondato dalla luce che precipita dai colli. La dottoressa Margherita Cassano lo occupa dal 26 gennaio, dopo gli anni alla Procura antimafia, al Csm e alla Cassazione. Ci offre un cioccolatino e ci racconta che «la mano della donna che scrive le sentenze è più asciutta, più chiara. E in camera di consiglio siamo quasi sempre meno emotive dei signori maschi». Guai, però, a parlarle di toghe rosa, o peggio di quote rosa: «Rispetto ad altre lavoratrici siamo già una categoria privilegiata e garantita, abbiamo norme che tutelano la progressione delle carriere. La mia famiglia è di origine lucana, quelle sì erano donne vittime di mille pregiudizi, io le ricordo bene. Dopo di che, una certa compressione dello spazio dedicato alla vita privata esiste. In questo mestiere, semmai, c’è il problema di un accesso sempre più lungo alla professione, realtà che rischia di impedire ai giovani il raggiungimento della pensione e che potrebbe discriminare i ceti sociali più deboli, quei figli di famiglie che non riescono a sostenerli troppo a lungo agli studi». In altre professioni forensi, la garanzia per le donne è minore: «Abbiamo siglato un protocollo con le avvocatesse per il riconoscimento degli impedimenti legati alla maternità e alla famiglia nella gestione delle udienze». La dottoressa Cassano ha 60 anni ed è in magistratura dal 1980. «Non esiste vera parità tra i sessi perché qui ancora non si accetta, nella donna, la mediocrità, supposto che sia giusto accettarla e non lo è. Tuttavia, un magistrato maschio mediocre si sopporta, una donna mediocre no. Noi dobbiamo sempre essere al top. Io comunque penso che le professioni non abbiano sesso e che occorra una distribuzione adeguata: se la magistratura si femminizza troppo, cade il prestigio sociale. Brutto dirlo ma è così». Nel Palagiustizia fiorentino tutto acciai e cristalli, esiste anche un asilo nido per i dipendenti, unico caso in Italia. «Trentasei posti e ne andiamo orgogliosi», dice Margherita Cassano. Ma lei si firmerà “il presidente” o “la presidente”? «Il presidente, che è neutro. Sono sincera, non mi appassionano questi dibattiti, se sia giusto dire “ministra” o “sindaca” o cose del genere. Parole, non sostanza».