La Stampa, 17 maggio 2016
Armi alla Libia per combattere l’Isis. Con l’accordo di Vienna l’Occidente appoggia il governo di Tripoli e l’Italia si prepara ad addestrare l’esercito regolare
Francesca Schianchi per La Stampa
Niente truppe occidentali a combattere in Libia: «I terroristi saranno sconfitti dalle nostre forze armate», promette Fayez Al Sarraj, il premier del governo riconosciuto dall’Onu. Ma pieno appoggio a quel governo e ai suoi sforzi, da parte della comunità internazionale: non solo garantendo, come fa il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che «siamo pronti ad addestrare e equipaggiare le forze militari libiche», ma anche, come si è deciso ieri in una riunione a Vienna, sostenendo la sua richiesta di eccezioni all’embargo sulla vendita delle armi, per potersi difendere dai terroristi. «Sosteniamo pienamente questi sforzi», si legge nella dichiarazione finale firmata da Stati Uniti, Russia, vari Paesi europei tra cui l’Italia, altrettanti della regione mediorientale.
«È urgente risolvere la situazione al più presto possibile», raccomanda sul piccolo podio viennese il segretario di Stato americano John Kerry, che insieme all’Italia ha promosso e coordinato l’incontro di ieri. Alla sua sinistra proprio Gentiloni, alla sua destra il premier libico Sarraj, in platea alcuni componenti del governo libico, una prima volta internazionale per questa squadra che da mesi lotta per avere una legittimazione piena in patria. Una ventina di nazioni, oltre a rappresentanti della Ue (Federica Mogherini) come dell’Onu (l’inviato Martin Kobler), attorno a un tavolo a discutere della delicata situazione libica partendo da due punti controversi, ripercorre la giornata il ministro italiano: il sostegno a questo esecutivo nonostante manchi ancora l’ok del riottoso Parlamento di Tobruk, e l’atteggiamento da tenere con Khalifa Haftar, il potente generale considerato proprio il primo ostacolo al riconoscimento del governo Sarraj. «C’erano opinioni diverse, ma si è arrivati a un punto di sintesi», sottolinea soddisfatto Gentiloni, un accordo che gira tutto intorno al «protagonismo» del governo riconosciuto dall’Onu: «Le forze del generale Haftar possono, anzi devono essere coinvolte nella lotta al terrorismo, ma lo si fa partendo dalla leadership di Sarraj». Un protagonismo che è anche una grande responsabilità, tanto più ora che si parla di alleggerire l’embargo sulle armi («cercheremo di revocare l’embargo e fornire gli strumenti necessari per contrattaccare Daesh», dice Kerry): la responsabilità di risolvere «al più presto» la situazione, altrimenti rispettare la richiesta libica ed evitare «boots on the ground», scarponi di militari stranieri sul terreno, diventerà sempre più difficile.
«Non sarà un’operazione facile, né di poche settimane», sa bene Gentiloni, ma «il rischio oggi (ieri, ndr.) era un nulla di fatto», e invece, sottolinea, si esce con documento congiunto e la volontà chiara di aiutare il governo libico. Legittimandolo, esortando il voto di Tobruk, garantendo l’assistenza promessa: «Avendo loro costituito la Guardia presidenziale, credo che nelle prossime settimane ci chiederanno di collaborare sul piano dell’addestramento. E noi siamo pronti». Invocando anche la normalizzazione delle istituzioni economiche, dalla National Oil Corporation alla Banca centrale, sotto l’amministrazione del governo Sarraj. Invitando «le forze militari e di sicurezza libiche a creare rapidamente un comando unificato per coordinare la lotta all’Isis», come si legge nel documento finale. E lavorando alla riapertura delle ambasciate occidentali, cosa che «potrebbe accadere anche tra pochi mesi», prevede il nostro ministro. Uno sforzo di controllo che ha spinto l’Italia, come altri Paesi europei, a dire no alla richiesta Onu di impegnarsi anche a proteggere i suoi uffici a Tripoli.
Francesco Semprini per La Stampa
Il documento sottoscritto a Vienna – considerato all’unanimità un importante successo degli sforzi diplomatici e negoziali dell’Italia – inaugura un percorso di alleggerimento dell’embargo sulle armi alla Libia previsto dalla risoluzione 1970 del 26 febbraio 2011. Nella sostanza sarà consentita la vendita di talune armi al governo di Fayez al Sarraj, riconosciuto dalla comunità internazionale come unico interlocutore in questo senso. Questo vuol dire che sarà il governo di Sarraj a stilare una lista di richieste in termini di armi che sarà sottoposta alla commissione costituita ad hoc dalle Nazioni Unite e che valuterà caso per caso. «Al momento gli unici che potranno ricevere armamenti leggeri sono le guardie presidenziali», spiegano fonti diplomatiche, della cui costituzione si occupa il generale Paolo Serra, consigliere militare dell’inviato Onu Martin Koblen. È il primo passo verso la realizzazione di un «sistema di sicurezza libico regolare svincolato dalla logica delle milizie che domina in questo momento lo scenario militare libico». Occorrerà poi che il Consiglio transitorio di Tripoli proceda alla costituzione di «polizia e forze armate professionali selezionate secondo criteri riconosciuti internazionalmente», prima di procedere alla fornitura di armi sia leggere che pesanti.
Ma quali sono gli armamenti la cui vendita sarà consentita e quali i rischi legati alla loro fornitura? Ne parliamo con Carlo Biffani ex ufficiale paracadutista della Brigata Folgore, e responsabile di «Security Consulting Group», tra i massimi esperti di sicurezza con una lunga conoscenza della Libia e delle sue dinamiche politico-militari. Prima però occorre fare una premessa: L’intelligence italiana lavora alacremente da anni nel Paese maghrebino e negli ultimi mesi è ragionevole immaginare che il lavoro si sia concentrato sulla individuazione di interlocutori affidabili sul terreno, personaggi con i quali stabilire rapporti proficui e che possano davvero raggiungere i risultati auspicati. «Prima di armare ed addestrare bisognerà quindi avere chiaro il perché – spiega Biffani -. Una cosa è essere armati ed addestrati per riportare l’ordine, un altra ben più complessa è per combattere l’Isis». Questa seconda ipotesi impone «una serie di aspetti e di assetti che non possono prescindere dall’impiego di reparti addestrati, di mezzi corazzati, di sistemi d’arma, di artiglieria e anti-carro e di supporto aereo sia in termini di analisi del territorio che di attacco e di proiezione».
La terza dimensione, quella aerea, da sola, non ha mai vinto nessuna guerra, «ma quando la battaglia si sviluppa sul terreno, aerei ed elicotteri fanno la differenza». Il punto di partenza trova tutti i potenziali Paesi fornitori concordi, un conflitto come quello in Libia non si vince solo fornendo nuovi modelli di fucili d’assalto, che per altro nel Paese non mancano di certo. È altrettanto importante capire cosa è rischioso mettere in mano alle forze in campo: «Faccio un esempio, durante l’invasione dell’Afghanistan da parte russa, l’occidente decise di inviare ai mujaheddin sofisticati sistemi missilistici a spalla in grado di abbattere gli elicotteri d’assalto russi – ricorda Biffani -. Il risultato che si ottenne fu quello di non sapere che fine avessero fatto poi quelle armi così costose e complesse e di averne perso completamente il controllo». Questo comporta una presenza sul territorio di «un numero consistente di addestratori e consiglieri in grado di gestire in maniera responsabile tanto gli aiuti che l’utilizzo dei materiali che si affidano loro ma è comunque un tema complesso». In questo contesto il contributo dell’Italia sarà senza dubbio importante sia sul piano dell’addestramento sia sul piano tecnologico. «Il nostro Paese ha una serie di importanti aziende che producono tecnologia militare e da difesa di primissimo livello», ad esempio le apparecchiature a sensori notturni. «Posto che sia ben chiaro a tutti gli attori nazionali – conclude Biffani – quali possano essere i rischi di una operazione di questo tipo».