Il Fatto Quotidiano, 15 maggio 2016
Claudio Ranieri racconta la sua favola
A metà di un nuvoloso pomeriggio di maggio, cercando la traduzione del termine “regret”, Claudio Ranieri scopre di non avere più una patria certa di riferimento: “Ormai non parlo più né l’italiano né l’inglese – dice – sono nella lingua di mezzo”. A 10 giorni dall’impresa che gli ha consegnato un biglietto di sola andata per la storia e un passaporto per volare via lontano, l’allenatore del Leicester continua a coltivare l’ironia e a mantenere i piedi per terra proprio come il Forrest Gump che non più di 7 mesi fa, nell’indifferenza generale, evocava davanti ai giornalisti che gli chiedevano quando avrebbe impiegato la sua squadra di ex galeotti, scommesse perse e mestieranti a tornare nell’anonimato: “Avevo detto che proprio come il personaggio di Tom Hanks, il Leicester avrebbe dovuto continuare a correre senza fermarsi mai. Siamo andati avanti partita dopo partita pensando solo a pedalare tutti insieme e a far punti finché a un certo punto ho detto ai ragazzi: ‘Il primato in Premier League è lì davanti ai nostri occhi e nessuno ne sta approfittando. O tentiamo di conquistarlo adesso o non ci proviamo mai più’. È successo. Ci siamo presi lo scudetto. È sempre il coraggio inconsapevole che porta all’impresa straordinaria”. Tra poche ore, coprendo la breve distanza che separa Leicester da Londra e chiudendo uno dei tanti cerchi esistenziali di un’avventura con la valigia nell’angolo, il telefono nella destra e la divisa sociale nell’armadio, Claudio Ranieri entrerà da eroe a Stamford Bridge dove allenò il Chelsea per quattro stagioni sollevando le braccia al cielo 107 volte. Oltre il finestrino del treno, campagna e fabbriche passano veloci. Di lampi e fotogrammi rapidi, seduzioni, abbandoni e finali ancora da scrivere è fatta anche la vita del signor Claudio Ranieri da via della Piramide Cestia, faraone per acclamazione, a quasi 65 anni.
Difficile smaltire la sbornia quando tutto il mondo ti applaude e ti offre da bere?
Più che altro è sorprendente rendersi conto di quanta gente, senza che lo sapessimo del tutto, ci stava guardando e sostenendo per spingerci a vincere.
Come si racconta questa storia?
Si racconta non riducendola semplicemente a storia, perché una storia come un’altra non è.
E cos’è?
Una favola. Un momento di magia. Una maniera di dare coraggio a chi non crede nell’impossibile.
Ai quasi 300.000 abitanti di Leicester, avete aggiunto altre decine di milioni di tifosi.
Quando in aprile siamo andati a Sunderland, la trasferta più lontana da Leicester, un viaggio di più di 5 ore, siamo scesi dal pullman e abbiamo trovato tantissime signore anziane del posto che ci aspettavano con la maglia della nostra squadra. Io e i ragazzi eravamo increduli.
A Sunderland, dopo aver vinto una partita chiave, lei uscendo dal campo si è commosso.
Ma non è vero. Mi sono commosso tante altre volte perché commuoversi è bellissimo e faccio un mestiere che si nutre di emozioni. Non mi sono mai vergognato di piangere in vita mia.
Quella volta però?
Quella volta l’inquadratura della tv ingannava. Faccio una smorfia che in effetti sembra commozione.
E tornare da vincitore nello stadio inglese dove tutto era iniziato nel 2000, davanti alla squadra che fermando il Tottenham vi ha laureato campioni, ha qualcosa di commovente?
Certo che è commovente. Mi riempie di un orgoglio che non si può spiegare. A Londra, a iniziare da John Terry che c’era 16 anni fa e c’è ancora oggi, ho lasciato tanti amici. Spero siano felici per noi, per me, per quel che abbiamo fatto. Con quel Chelsea, il Chelsea di Ken Bates e di un Roman Abramovic che non aveva ancora investito a fondo nella società, ci togliemmo grandi soddisfazioni.
Al Chelsea arriverà Antonio Conte. Per conquistare uno dei primi tre posti o per navigare nell’anonimato come i blues di quest’anno?
Per vincere e primeggiare, sicuramente. Sia per il valore di Conte, sia per le ambizioni del Chelsea. Quest’anno è andata male. Non ricapiterà.
E le ambizioni dell’Italia all’Europeo? Richiamo davvero di uscire presto?
Non credo proprio. Sono convinto che l’Italia disputerà un buon Europeo. Peccato che Conte non possa scegliere i centrocampisti centrali che vorrebbe, ma faremo la nostra parte.
Lei come arrivò al Chelsea?
Ero nella campagna toscana, a settembre, nella casa in cui con i vecchi amici dei tempi di Catanzaro ci riuniamo ogni anno non appena possiamo. Squillò il telefono: “Tieniti pronto Claudio, il Chelsea vorrebbe incontrarti per proporti di prendere la squadra al posto di Vialli”.
E lei partì.
Non avevo neanche un vestito. Corsi a Siena a comprare giacca e cravatta, raggiunsi Roma e mi imbarcai al volo per Londra.
Ora di giacca e cravatta non ha più bisogno.
Ora è tutto incredibile, si sono alterati i parametri. Per me è strano. Io so di essere sempre quello di prima.
E come lo sa?
Lo so da 64 anni, ho una certa esperienza sul tema.
“Ranieri è buono e comprensivo” dicevano. “Troppo buono, troppo comprensivo”.
Io non sono troppo buono e non sono troppo comprensivo. Non sono né buono né comprensivo in verità. Sono comprensivo fino al limite che considero lecito. Ho il mio punto di rottura. La mia soglia di sopportazione. Quando le cose non vanno come devono andare, a mollare tutto, disinteressarmi della questione e a salutare la compagnia non ci metto niente. Avrò tanti difetti, ma mi riconosco un pregio.
Quale?
Io le cose le dico in faccia.
Ranieri l’impulsivo?
L’età ti porta a diventare più riflessivo e rispetto a ieri, magari, prima di sbottare, impiego più tempo a cercare di capire le ragioni degli altri. Il carattere però rimane sempre quello. Non mi piegavo da ragazzo e non mi piego adesso.
Com’era Claudio Ranieri da ragazzo?
Uno che voleva giocare a calcio e sapeva che a casa bisognava dare una mano. Consegnavo la carne in Lambretta. Mio padre Mario aveva una macelleria a Testaccio. Lui e Renata, mia madre, me li ricordo sempre a lavorare. Faticavano dalla mattina alla sera. Non hanno mai smesso. L’impronta iniziale è stata profonda. E a essere tenace ho imparato da loro.
Per affermarsi ha faticato anche lei. Quanto ha a che fare la lezione del Leicester di oggi con i suoi primi anni tra San Saba e Testaccio?
Tanto. Impegno e sacrificio sono linguaggi universali. Ho sempre chiesto di dare tutto a ragazzi che avevano storie e biografie simili alle mie. Gente, i calciatori del Leicester, che non aveva trovato la tavola apparecchiata, ma che la propria occasione se l’era dovuta sudare. Non puoi tirare fuori il senso di appartenenza a chi non capisce di cosa stai parlando. Il senso di appartenenza, la forza del gruppo, l’aiuto reciproco è una qualità che o hai dentro o non hai. Lo puoi fortificare, esaltare, valorizzare, affinare, ma se non esiste non la puoi inventare.
Come ha scelto di diventare allenatore?
In realtà non ci pensavo proprio. Pensi che a fine carriera, quando ero a Palermo e proprio come in quella canzone di De Gregori, noi vecchi stavamo tutti pensando di appendere le scarpe al muro chiedendoci cosa avremmo fatto il giorno dopo, qualche compagno propose di prendere il patentino di terza categoria per iniziare ad allenare: “Vieni anche tu, Claudio?”. “Io no ragazzi, io non lo faccio l’allenatore, preferisco di no”. La scintilla si accese più tardi.
Che mestiere avrebbe fatto se non fosse diventato allenatore?
Non sapevo cosa altro fare, ma una possibilità diversa l’avrei considerata sicuramente. Mi ero dato 5 anni per arrivare in serie A, altrimenti, mi dissi: “A che servono i sacrifici?”. Con la valigia in mano a spasso per la terza serie non mi vedevo proprio. Se fossi stato modesto come ero stato modesto da calciatore, avrei fatto un altro mestiere.
Primissima scena. 1986, Lamezia, campionato interregionale. Al posto del Tottenham, avversari come Solofra, Acerrana e Palmese.
Inizio splendido, finale tumultuoso. Ero arrivato per rinnovare l’ambiente e quando mi accorsi che le condizioni di partenza erano cambiate e i patti andavano nella direzione sbagliati me ne andai.
Sugli almanacchi è ricordato come esonero.
Ma lasci perdere gli almanacchi. I miei esoneri sono stati veramente pochi. La parola esonero, come quell’altro termine orrendo che ai commentatori piace tanto mettersi in bocca, “cacciato”, usato come una freccia o un proiettile, è buona soltanto per i titoli. Come le ho già detto, quando le cose non vanno come dico io, preferisco lasciarmi tutto alle spalle.
Ci vuole equilibrio interiore per un mestiere come il suo.
Penso sia la mia dote principale. Non mi esalto quando le cose vanno bene e non mi deprimo quando vanno male. Sa chi dovrebbe esercitarsi nell’equilibrio? Chi scrive e applica etichette definitive.
Titolo del più diffuso free press londinese nel giorno della firma per il Leicester: “L’uomo che ha perso con le isole Far Oer”.
Conosco il gioco. Il meccanismo. Il rischio d’impresa. L’emotività del calcio. Ma in Grecia non mi pare sia andata bene neanche a chi è venuto dopo di me. Hanno cambiato già due allenatori. E mi fermo qui.
Si ferma perché le ha fatto male?
Sa cosa mi fa male e mi ferisce molto? L’ingiustizia. Il pregiudizio. Mi fanno uscire pazzo.
Con la critica che rapporto ha?
Le critiche non mi hanno mai infastidito. La critica è il sale della vita. Ti stimola a migliorarti, a chiederti dove hai sbagliato, a comportarti diversamente. A me la discussione seria, se non è teatrino a uso e consumo della polemica pretestuosa, è sempre piaciuta.
Ranieri, come pure in molti avrebbero voluto, non diventerà l’allenatore dell’Italia. Polemica possibile?
Ma no, per carità. Qui a Leicester ora sto benissimo e ho iniziato la costruzione di un edificio. per la nazionale domani chissà. Mai dire mai.
Dall’Italia non l’ha chiamata nessun altro?
No, nessuno. Sapevano, perché l’ho detto subito, che qui ho un contratto di 3 anni e un rapporto splendido con la dirigenza.
Chi è veramente Claudio Ranieri?
Uno che si è sempre guadagnato tutto lottando e soffrendo. Mi piace così. Non avrei voluto che andasse in nessun altro modo. Lottare è il mio karma. Non cambierei una virgola di quel che ho fatto.
Lei ha allenato grandi squadre in Italia e in Europa. Juventus, Inter, Roma, Napoli, Chelsea, Valencia, Monaco, Atletico Madrid. Perché sostiene che l’esperienza professionale più importante della sua vita sia stata a Cagliari?
Perché è così. Senza Cagliari avrei potuto rimanere tra i dilettanti per sempre. Vincere la Premier è straordinario, ma io sono partito dalla super gavetta e so che senza quel triplo salto dalla serie C alla serie A non sarebbe accaduto tutto il resto.
La convocò il presidente Tonino Orrù.
Lui e il direttore sportivo di allora, Carmine Longo, mi diedero appuntamento all’aeroporto. Mi presentai a Fiumicino convinto che i miei amici mi avessero organizzato uno scherzo. Mi guardavo intorno, li cercavo, ero pronto al contropiede. Invece, mi vennero incontro due sconosciuti.
La società non aveva un soldo. La campagna acquisti fu un inno alla svendita. Lei vinse due campionati consecutivi a zero lire.
Andammo ad allenarci a Roccaporena, in Umbria, in un posto incantato. Mi sembrava di essere tornato agli inizi. C’era un campo di terra tutto sgarrupato con le reti consumate, un silenzio perfetto per creare il gruppo. La favola di quel Cagliari nacque in quel ritiro.
Il campo in terra battuta c’era anche nella sua esperienza precedente, a Pozzuoli.
Io allenavo il Campania Puteolana. Arrivò proprio la partita con il Cagliari, appena retrocesso dalla serie B alla C e destinato secondo le previsioni della vigilia a dominare il campionato. Notai che i calciatori sardi, per riscaldarsi, avevano scelto l’unica porzione del campo in cui c’era qualche zolla d’erba. L’aveva fatta piantare da poco un amico che mi raggiunse per comunicarmi la sua preoccupazione: “Claudio, così la rovinano, l’abbiamo appena piantata, li faccio spostare?”.
E lei?
“Lasciali lì – gli dissi – questi dormono, sognano e si sentono ancora in serie B. Non li svegliare”. Orrù, il presidente del Cagliari, era lì vicino. Ascoltò il colloquio. Il Campania vinse quella partita e l’anno dopo, al momento giusto, Longo e Orrù si ricordarono di me.
Quale altra esperienza è stata importante?
Sono state tutte importanti. Città, tifoserie, presidenti e calciatori. Anche quelli con cui non sono andato d’accordo.
Nella commissione del Catania 1983, incaricata di ottenere i premi, lei, Sorrentino, Cantarutti e Morra siete chiamati a trattare con il presidente Angelo Massimino.
Oohh, sì, come no? Facevamo i sindacalisti. Anni indimenticabili. Massimino era un personaggio incredibile e mi voleva un bene dell’anima.
Lei ha lavorato con chiunque e non troviamo una sola dichiarazione contro le società in cui ha prestato servizio.
Il ruolo dell’allenatore è quello. Non puoi ammonire i tuoi ragazzi sull’importanza di tenere segrete certe dinamiche di spogliatoio e poi appena ti succede qualcosa, sputtanare tutti. Non si fa. Non è giusto. Non è corretto. Non è coerente. Non è elegante. L’esempio da dare al gruppo viene prima di tutto.
Il suo Leicester è un bel gruppo?
In 30 anni di calcio, ragazzi così non li ho incontrati spesso. Nel momento più istituzionale di tutti, quello della conferenza stampa a titolo raggiunto, mi hanno innaffiato con lo champagne.
Li ha puniti?
No. Anche se mi hanno ghiacciato la schiena, è stato bellissimo. Tra di noi c’è un’intesa speciale.
Lei è l’unico allenatore del pianeta ad aver concesso una settimana di ferie ai suoi allievi.
Avevamo fatto un patto. Loro hanno mantenuto la promessa, chi mi dava il diritto di tradirla?
A volte per farsi rispettare bisogna dimostrarsi coraggiosi. ll Ranieri che manda in panchina Totti e De Rossi in un derby o quello che arriva a Napoli dopo Maradona, scopre Zola e dice, controvento: “Dimenticatevi gli ultimi 7 anni” è coraggioso?
È soltanto uno che sa parlare chiaro.
La parola rivincita per lei che senso ha?
Nessuno. Non mi interessa. Non rimpiango niente. Non potevo andare bene a tutti e non potevo piacere a chiunque. Non ho rivincite da prendermi con nessuno. Io lavoro. Io ho sempre lavorato.