La Gazzetta dello Sport, 16 maggio 2016
E davanti al casale di Oriana Fallaci Brambilla ha difeso la sua maglia rosa
Il traguardo garriva lontano come la bandiera di Giovanni da Verrazzano sopra le onde del mare. Anche Gianluca Brambilla, come il grande esploratore nato qui nel Castello da Verrazzano su un poggio della Val di Greve, era con la sua nave, la bicicletta. Una nave sottile, che appariva più fragile sotto la pioggia.
Sulla rampa di lancio assomigliava a un petalo di pesco che il vento presto si sarebbe portato via. Il maltempo sconvolgeva i valori. Cancellara era battuto. I favoriti arrancavano. Eppure Brambilla era calmo. «Non pensavo alla maglia rosa. Volevo solo esprimermi al 100%. Pioveva, ma sapevo che anche gli altri correvano sul bagnato. Volevo difendermi al meglio. Senza rischiare la pelle», spiegherà dopo, oltre il traguardo. «Avevo dormito con la maglia rosa sul televisore. E ogni tanto mi chiedevo se fosse la realtà oppure un sogno. Ero stordito dal chiasso attorno a me. Il telefonino si bloccava».
Intorno a lui la vittoria gorgogliava come la lava nella bocca di un vulcano: presto lo avrebbe consumato e ridotto in cenere. «Mi sono isolato e mi sono detto: “Devo fare tutto come ho sempre fatto”. Se questa via mi ha portato fin qui, perché cambiarla?». Al via da Radda sfiorava le case di pietra serena, portici nobili, fiori, giardini. Vedendo il gallo nero, simbolo del Chianti Classico, col petto rosa, si confrontava con lui. Da un balcone uno striscione lo incoraggiava: «Brambilla magico». Immobile sulla rampa era un oggetto formato di molte parti colorate: il casco bianco, maglia e pantaloncini rosa, nere le scarpe nude, calzini bianchi, il numero 62, la ruota lenticolare dietro e quella ad alto profilo davanti. Al segnale si trasformava in un quadro futurista. Tutto vorticava. Come Il Chirottero Metropolitano di Depero. Giù, a rotta di collo. Lo seguiva l’ammiraglia col dottor Corsetti a far da pilota di rally e il ds Bramati, che latrava consigli. La strada era un filo di seta. Elegante come fosse l’inizio della matassa srotolata da un gattino, ma era arduo come il filo dell’acrobata senza rete. Sfiorava la boscaglia, dove, con i cinghiali, è comparso il lupo. Brambilla era la preda.
Nella sua scia avevamo il tempo di apprezzare l’eleganza del rosa contro il verde luminoso di maggio e il grigio cupo delle nuvole maculate da chiarori maligni. La radio gracchiava. “Caduta di Capecchi”. “Uran è caduto”. La maglia rosa era aggrappata ad equilibri sottili. Al primo intertempo era volata via, strappata da Zakarin, corsaro tartaro. Ignaro Brambilla andava su e giù per le colline in un esercizio ad alto rischio. Passava volando nella trama dei vigneti. Non vedeva la pieve di Santa Maria Novella, il Castello di Volpaia, il castello di Monteriggioni, la Pieve di Pantano con l’Eremo delle Stinche. Guardava solo la guida della strada. Dipingeva le curve. Via oltre Castellina in Chianti, oltre la Madonna di Pietracupa. «Caduta di Zakarin». All’improvviso radio-corsa riapriva la speranza. La voce di Bramati si alzava di tono. Brambilla era attaccato di nuovo con la punta delle dita alla maglia rosa come un bimbo ad un aquilone. Il cronometro del terzo intertempo, però, raggelava gli entusiasmi. Il compagno Bob Jungels – 45’41” contro 47’08” – lo sopravanzava per 6”. Mancavano 6,8 chilometri. Lì Brambilla trasmutava in missile. Una metamorfosi strepitosa.
La sua discesa era un capolavoro cinematico. Quel proiettile, infallibile, perforava meravigliose ulivete. «Guarda come vola!», esclamava Enrico Bonsembiante, il nostro auriga, ammirato. «Non sbaglia una curva!», gli faceva eco Raffaele Babini. La sfida con Bob era in perfetto equilibrio entrando a Greve in Chianti, ove Oriana Fallaci aveva un casale. Lei, che, pedalando, faceva la staffetta partigiana a 13 anni. Lei che esordì nel grande ciclismo andando a Santa Maria di Sala ad intervistare la mamma di Toni Bevilacqua, che aveva vinto la Roubaix. Era l’ultima curva a decidere. Quella di Brambilla era perfetta come l’O di Giotto. Lì strappava a Bob il secondo che vale la maglia rosa. Poi consolava il compagno: «Se l’avessi presa tu per un secondo, sarei stato parimenti felice». Però sfilava per Greve come Giovanni da Verrazzano nella baia di New York il 1° marzo 1524 e diceva: «Quel secondo è il mio capolavoro».