Il Fatto Quotidiano, 16 maggio 2016
1976, la dura legge del Toro e gli anni di piombo
La legge del Toro è una variante di quella di Murphy, e si può tradurre in un semplice comandamento: mai gioire i prima del tempo, non si sa mai. Un esempio? Roma-Torino dello scorso 20 aprile. Al minuto 82, con il Toro meritatamente in vantaggio per 2-1, dalla panchina giallorossa si alza Francesco Totti. Tutti in piedi ad applaudire, i compresi i 2-300 granata del settore ospiti insieme ai pochi accomodati clandestinamente nella vicina Tribuna Monte Mario. Uno di questi, inopinatamente, parla: “Ecco, siamo gli unici ad applaudire un avversario che tempo un minuto ci castiga”. Detto ! fatto, il seguito è noto: 3-2 per la Roma, doppietta di Totti, primo gol dopo 22 secondi.
La legge del Toro non risparmia nemmeno le (poche) indescrivibili gioie sportive: l’ultimo scudetto per esempio, giusto 40 anni fa. Era domenica, 16 maggio 1976, sulla grigia Torino di allora splendeva un limpido sole. Fu festa grande, particolare, e purtroppo breve. In città, il giorno dopo si sarebbe parlato anche d’altro oltre che di calcio.
UNA CELEBRE foto ritrae la squadra a centrocampo con alle spalle lo stadio Comunale stracolmo: sulle granatissime magliette sudate ogni giocatore ha un adesivo tricolore:
“Quando riguardo quella foto i racconta Claudio Sala, il Poeta del gol, capitano dell’“altro Grande Torino” (titolo di un bel documentario di Raisport a cura di Paolo Maggioni e Stefano Tallia) sembra che quella squadra si sia appena salvata. Nessuno sorride, l’allenatore incazzato...”.
Quel 16 maggio, infatti, il Torino di Gigi Radice è in testa con 44 punti, uno in più della Juventus, a cui ne ha recuperati 5 nelle ultime dieci partite (due punti a vittoria). Non solo, nelle 14 partite precedenti giocate in casa, ha sempre vinto (record che ha resistito fino al 2014) e al Comunale arriva il tranquillo Cesena: con la 15esima vittoria sarà lo scudetto matematico. Al minuto 61 Ciccio Graziani sbagliaunostop.si allarga sulla sinistra e crossa in mezzo. La palla è bassa, nessuno penserebbe di colpirla di testa. Nessuno tranne Paolino Pulici, che a trenta centimetri da terra colpisce e batte il portiere del Cesena sotto la curva Maratona. Enrico AI meri dai microfoni di Tutto il calcio minuto per minuto, annuncia: “Il conto alla rovescia è cominciato!”. Non per la legge del Toro: al minuto 70 un innocuo pallone calciato dal cesenate Frustalupi incoccia sulla testa di Roberto Mozzini a centroarea che, con il Giaguaro Castellini in uscita verso una comoda presa, indovina il più fantozziano degli autogol. Gelo sul Comunale. Finirà così, 1-1.
Basterà. A Perugia Renato Curi stende la Juve nello stadio che porterà il suo nome. Ventisette anni dopo Superga il Torino è di nuovo Campione d’Italia. Al fischio finale Paolo Frajese, inviatodi90° Minuto, insegue Gigi Radice. L’intervista è strepitosa: “Gigi, siete campioni”. E Radice (che aveva vietato le radioline a bordo campo) incazzato: “Sì va beh, ma quel gol, non capisco...”. “Gigi, ma cosa te ne frega, la Juve ha perso siete campioni!”. “Ah sì, ha perso? Eh va beh, però quel gol...”. “Ma Gigi, lascia perdere!”. Il “sergente di ferro”, ricevute le scuse di Mozzini, si scioglie in un sorriso. Pulici lo abbraccia. La festa può cominciare.
Migliaia e migliaia di persone, da ogni parte, s’incamminano per Superga (non è uno scherzo, alcuni tornanti hanno una pendenza del 10%) in una processione laica che dura tutta la notte. Bisogna deporre lo scudetto sulla lapide dei Campioni del Grande Torino che lì, sul terrapieno della Basilica, morirono insieme in un piovoso 4 maggio del 1949. Prova a salire anche la squadra, ma la folla impedisce il passaggio del pulmino. Così molti di loro scendono e camminano con i tifosi, fiaccola in mano.
Si disse allora che quella fosse probabilmente stata la più grande festa popolare dai giorni della Liberazione del 1945. E in quegli anni, l’aria di una Torino davvero grigia, non era delle più spensierate. La città era un’enorme manifattura che seguiva i ritmi delle sirene della fabbrica. E da qualche anno quello delle sirene della polizia. La rossa Torino, la città italiana con la più alta concentrazione operaia in Italia, non poteva che essere il campo privilegiato della lotta di chi sognava una rivoluzione comunista pistole in pugno.
QUESTO è ciò che pensa un gruppo di uomini chiassosi che, la mattina del 17 maggio 1976, in una città ancora ubriaca di festa, entra in catene in una piccola Aula dell’allora Tribunale di via Corte d’Appello. E il nucleo storico delle Brigate Rosse, che Renato Curcio e Alberto Franceschini (tra gli imputati) hanno portato sotto la Mole nel 1973. Quel giorno, 17 maggio 1976, 40 anni come lo scudetto, è un’alba di sangue per Torino e per l’Italia. Pe fermare quel processo le Br che fino a quel momento hanno ucciso (ma senza premeditazione) una sola volta, a Padova, i militanti missini Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci scateneranno un volume di fuoco impressionante. Il primo a cadere, il 8 giugno 1976, sarà il procuratore generale di Genova Francesco Coco (ucciso insieme agli uomini di scorta Giovanni Saponara e Antioco Deiana), “reo” di aver bloccato una decisione della Corte d’appello che nel 1974 dispose la scarcerazione di alcuni detenuti “politici” in cambio della liberazione del giudice Mario Sossi, rapito dalle Br.
A seguito di quell’omicidio il processo verrà rinviato dopo poche udienza, ufficialmente per motivi tecnici (l’acquisizione di atti d’inchiesta fatti a Milano).
Riprenderà nella primavera del 1977 e a cadere sarà un anziano avvocato, Fulvio Croce, presidente dell’Ordine, ucciso il 28 aprile a 76 anni per aver accettato la difesa d’ufficio degli imputati, dando così una parvenza democratica nell’ottica delle Brigate Rosse a un processo fascista.
A quel punto il processo sarà nuovamente rinviato e questa volta non per motivi tecnici. In una città di un milione e duecentomila abitanti non si riescono a trovare otto cittadini disponibili a far parte della giuria popolare di una Corte d’Assise. Sul tavolo del presidente della Corte Guido Barbaro si accumulano i certificati medici di centinaia di cittadini sorteggiati che rifiutano l’incarico. Le Brigate Rosse hanno vinto.
Il processo riprenderà nel 1978 e questa volta si concluderà, non prima che le Br uccidano il maresciallo Rosario Berardi a Torino (10 marzo) e il commissario Antonio Esposito a Genova (21 giugno), due uomini di punta dell’antiterrorismo. E si concluderà rispettando i diritti degli imputati, a cui fu addirittura consentito (una decisione di Guido Barbaro che fece gridare allo scandalo) di controinterrogare in aula il loro ex prigioniero Mario Sossi. Un processo “fascista” fatto a norma di Costituzione, sotto una pioggia di sangue per interromperlo: la prima vera sconfitta delle Brigate Rosse.
Cosa c’entra uno scudetto con un processo. Cosa c’entra il calcio con la morte? Cos’altro lega questi due eventi oltre allo spazio e al tempo? Forse mille e mille storie.
Una a caso (ma non troppo) potrebbe essere quella di un bambino che a sette anni si innamora di quelle maglie color del sangue e del barbera e che ascolta i racconti del padre ! che gli ha trasmesso quel virus sentimentale. E divora i ricordi del Grande Torino e della Tragedia di Superga; degli Anni Cinquanta, poveri ma belli in quella fossa dei leoni chiamata stadio Filadelfia; degli Anni Sessanta di Joe Baker e Denis Law, futuro pallone d’oro, che ballarono una sola stagione terminando la loro avventura torinese ubriachi contro il monumento a Garibaldi davanti ai Murazzi del Po; della farfalla granata Gigi Meroni strappato alla vita in corso Re Umberto; dei primi Anni Settanta e di Gustavo Giagnoni, l’allenatore comunista che nel 1972 perse lo scudetto per un solo punto (anche grazie a un paio di epocali sviste arbitrali) e durante i derby (che vinceva) si dimenava con un colbacco in testa e una sciarpa di spessa lana granata al collo; Di Gianni Bui prima ancora che di “Puliciclone”. Poi, il vuoto fino ai primi Anni Ottanta, quando allo stadio già si andava insieme.
PERCHÉ non era al Comunale quel 16 maggio, perché così poche storie di quel secondo Torino grande? Il motivo, il bambino lo scoprirà solo anni dopo, sta in quelle 24 ore che separano il gol di Pulici dalla prima udienza. Non c’era tempo per andare allo stadio. C’era un processo da fare.
L’ideologia armata è anche una moda ed entra negli stadi. Nella curva Filadelfia della Juventus esiste “Autonomia bianconera”, il simbolo è una chiave inglese e in molti mimano il gesto della P38 con le mani. Chi ha una P38 vera gira attorno allo stadio: Patrizio Peci, capo della colonna torinese delle Br in quegli anni, colui che, con il suo pentimento, darà il colpo mortale al terrorismo rosso in Italia. Nella sua autobiografia Io l’infame scritta negli Anni 80 racconterà di come abbia più volte rischiato l’arresto per la voglia matta di entrare allo stadio durante le partite della Juve. Lui, clandestino ma anche juventino, come moltissimi nuovi torinesi che nella Juventus di quegli anni che come oggi mieteva scudetti avevano trovato un felice passatempo tra un turno in fabbrica e l’altro.
In fondo, tuttavia, che l’ultimo scudetto granata e il processo alle Brigate Rosse siano separati da 24 ore non è che uno dei tanti capitoli di quella sceneggiatura che senza eguali nella storia del calcio che si chiama Toro. Non a caso il già citato documentario di Raisport, ha scelto di raccontare entrambe le cose. Non a caso domani, al campus Einaudi dell’Università, rincontro #Torino ricorda gli Anni di piombo si aprirà con Claudio Sala e Renato Zaccarelli.
Ps: l’anno successivo quel Torino con lo scudetto sulle maglie (sopra cui si volle cucito un rampante Toro granata), fece cinque punti in più dell’anno precedente, totalizzandone 50 sui 60 allora disponibili. Un’enormità mai vista né prima né dopo. La Juventus, quell’anno, ne fece 51. La legge del Toro.