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 2016  maggio 16 Lunedì calendario

Un libro definitivo su Lucio Dalla

Gli capita spesso, ad Adriano Celentano, di fotografare le vite altrui con lampi di genialità estemporanea. Così, di Lucio Dalla, una volta ha detto: “Mi manca tutto di te. Anche i momenti di eroica fragilità che contribuivano a renderti sempre più grande. Ti volevo e ti voglio bene”. E poi Francesco Guccini: “Era un uomo profondamente vivace. Ecco: uno che viveva senza risparmi e senza paura di esaurire l’entusiasmo. Un vero testimone della musica, uno che per la musica ha vissuto”. E Federico Fellini: “È il più bugiardo dopo di me. Forse per questo le emozioni gli venivano così bene”.
È anche il parere di Luca Beatrice, che a Lucio Dalla ha dedicato questo Per i ladri e le puttane sono Gesù Bambino (Baldini Castoldi Dalai). L’autore torinese aveva già provato la biografia musicale raccontando la sua passione sorcina per Renato Zero. Dice che è stato convinto da Michele Dalaia scrivere “il libro definitivo su Lucio Dalla”.
PAROLA tanto impegnativa quanto qui equivoca, “definitivo”, perché nulla lo era ed è in Dalla se non la certezza del talento. Più che definitivo, Dalla era ed è costantemente cangiante. In itinere: in movimento costante. Un work in progress perenne, che Beatrice racconta con dovizia mai cattedratica e men che meno barbosa. Peraltro un’autobiografia di Dalla è tecnicamente impossibile, perché presuppone la veridicità assoluta dell’aneddotica: assai complicato, in questo caso. E Beatrice lo sa bene: “Lucio Ferdinando Romeo Dalla nasce a Bologna il 4 marzo 1943, da Giuseppe (1896-1950), direttore del club di tiro al volo, e da Jole Melotti (1901-1976), casalinga e sarta. Almeno questo è ciò che dicono le note biografiche ufficiali, sulle quali chi ha conosciuto Dalla da piccolo nutre più di un dubbio. Lucio, figlio unico, cresce da solo con la mamma, una donna simpatica, divertente, ironica, che spesso lo prende in giro per il suo aspetto buffo”. È come se, fin dall’inizio, Dalla fosse stato permeato da una vicinanza con il fantastico e il non-vero, tratto che ne ha certo amplificato la sfavillante propensione all’invenzione. La sua era un’idea di arte poliedrica, sfaccettata e inesausta, col vezzo (e l’azzardo utopico) di provare a sostituire la mesta ripetitività del reale con la fantasia. Sempre così, in ogni fase della sua vita. Compresi gli anni con Roberto Roversi, fugaci e sublimi. “Sembra che Dalla abbia cercato insistente mente l’incontro e il confronto con un personaggio di una tale caratura intellettuale. Dopo il successo di 4/3/1943 e Piazza Grande sente la necessità impellente di andare oltre. La musica leggera non gli basta più, legarsi a un genere troppo facile gli appare un limite, pur consapevole che le incursioni in un territorio più impegnato potrebbero co-
stare care in termini di risultati discografici”. Nasceranno dei capolavori, non però in maniera indolore. Così, anni dopo, Roversi: “I testi del sottoscritto perlopiù al cantante erano graditi come olio di ricino. Mai li ha imparati a mente. Li ha sempre storpiati un poco, con la piccola rabbia dell’indifferenza. Quasi a dire: toh! Il padrone sono io. Io sto davanti a questi duemila e servo il mio budino. Essi assaggiano me. Tu non rompere”.
Se c’è una ulteriore qualità nel libro di Beatrice, oltre alla consueta bella scrittura, è quella di non celare mai i rovesci (rari) e gli scontri (frequenti), che nulla tolgono e anzi aggiungono alla genialità irrequieta di Dalla. Emerge più volte il ruolo decisivo di Ron, per esempio.nello storico tour Dalla-De Gregori del 1979. È lì che Ron assurge a terzo uomo e, quindi, talora a paciere. Raccontò al tempo: “Il momento più difficile è l’accordatura delle chitarre, una cosa tragica. Lucio quando è in concerto e sta suonando non vuole mai perdere tempo con queste cose e io divento pazzo perché non riesco a suonare con la chitarra scordata, e Francesco neanche”.
Una delle cifre di Dalla, e dunque del libro, è il continuo smarcarsi dal passato. L’irrequietezza elevata ad angelo custode. Il Dalla del successo straripante di fine Anni Settanta nulla c’entra con quello ermetico di Roversi, gli Ottanta sono una svolta ulteriore, i Novanta ancora un’altra (non sempre centrata, ma in Dalla anche l’errore suonava comunque bene, o mal che vada sublimava in deliberato cazzeggio). E via così. Sempre diverso e mai dissonante: condannato a non fermarsi mai. Conoscendo il dinamismo e la spiccata personalità di Beatrice, colpisce il suo sapersene stare come in disparte: per non offuscare nulla dell’artista, l’autore della biografia non può qui che inseguire un minimalismo da navigato cronista, che non esclude però (e fortunatamente) accelerazioni e divagazioni.
NEGLI ULTIMI ANNI, quando Dalla pareva pervaso da una malinconia prossima al presagio, Lucio Dalla continuava a regalare perle. Nei dischi e nelle (rare) interviste. Per esempio: “Quando ho cominciato c’era una tensione che oggi nella musica non c’è proprio più. Il mondo della comunicazione oggi è da lacchè, abbassa il livello perché venga capito immediatamente, pensando che il pubblico fa da riferimento ai modelli televisivi, ma sono modelli già taroccati, filtra niente di autentico. Ma l’autenticità della musica è un sogno insopprimibile, è fondamentale prendersi la responsabilità di quello che fa, significa comunque non sottrarsi al flusso di trasformazione del mondo. Ogni trasmissione televisiva, ogni canzone che esce e non ha alcun senso di mistero e inquietudine, è un delitto, e me dare della candeggina nell’acqua da bere di un asilo”. E poi ancora: “Tra i sedi e i ventisei, convinto di ave il tetano, una sera sì e una se no chiamavo l’ambulanza mi chiamavano quello del tetano. In realtà non ho m progettato niente del futuro non ho mai saputo neanche che avrei cantato, se mai avevo un sogno era fare il bidello del liceo dov’ero perché vendeva dei panini alla mortadella talmente buoni che mi sembrava una forma di potere quasi kafkiano”. Infine: “Ho un catalogo talmente straordinario di esperienze storie che a volte scrivere u testo è uno scherzo”.
Luca Beatrice ha il merito di restituire tutto: il genio certo, ma pure lo scherzo.