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 2016  maggio 16 Lunedì calendario

«Senza donne, vino e pistole sarei stato più forte di Pelè». Intervista a Gianfranco Zigoni, campione atipico e dimenticato

«Alla Juve piangevo. Ero un ragazzino, mi mancavano gli amici. Non ho mai amato il calcio professionistico. A me piaceva giocare col pallone all’oratorio: lì eravamo davvero liberi e la libertà, nella vita, è tutto. Tornavo da Torino ogni volta che potevo: una notte in autostrada, vicino alle gallerie di Vicenza, ho anche rischiato di morire solo per la voglia di rientrare a casa il prima possibile. Mi ero addormentato mentre guidavo, avevo una Fiat 500. Sono vivo soltanto perché l’ha voluto il destino». Gianfranco Zigoni ha 71 anni. Vive nella sua Oderzo, 20mila abitanti in provincia di Treviso. In serie A ha giocato con Juventus, Genoa, Roma e Hellas Verona: in totale 265 partite e 63 gol. Una media non altissima per un attaccante – un gol ogni 4 partite – su cui ha pesato soprattutto il carattere ribelle. Però per tutti a Verona – dove ha passato più di metà carriera – era comunque Zigo-gol. «In un Verona-Vicenza dissi al guardalinee che se non si allontanava da me gli mettevo la bandierina nel culo. Mi squalificarono per sei giornate e presi 30 milioni di multa». Ancora con la maglia dell’Hellas, stagione ’76-’77, nei minuti finali di una partita stese con un cazzotto Paolo Ammoniaci, difensore della Lazio, reo di averlo trattenuto per la maglia dopo 90 minuti di falli continui: altri 4 turni fuori. 
Dribbling, donne, alcol, macchine e pistole. «Non ero tanto a posto. Giravo con una Smith&Wesson, la portavo anche allo stadio il giorno della partita. Se ci penso mi vengono i brividi. In ritiro, dalla finestra della camera, sparavo ai lampioni: ci scommettevo sopra bottiglie di champagne, anche se io proferivo il prosecco. Oggi mi metterebbero in galera. Più bravo di me a sparare c’era solo un mio compagno, Mascalaito. Aveva una mira bestiale, ma con lui un giorno mi sono incazzato e non gli ho più parlato: aveva sparato a un uccellino, non doveva farlo. Cosa gli aveva fatto di male quel poveretto?». 
Uno dei quattro figli di Zigoni, Gianmarco – 25 anni tra pochi giorni – coi suoi 11 gol ha contribuito alla promozione della Spal in serie B, dove i ferraresi mancavano da 25 anni. E dunque l’anno prossimo suo figlio giocherà contro l’Hellas. 
«Che emozione! Non riesco a immaginarmelo quel giorno. Non so per chi farò il tifo. Sai cosa mi piacerebbe? Un bel 3-3, con tre gol di Gianmarco. Ma ascoltami: non può prenderlo il Verona?».
Me lo dica lei.
«Allora, ti dico: c’era stato un interessamento, anni fa. Lo voleva Gibellini, il direttore sportivo. Mi ero anche visto con lui e ne avevamo parlato. Purtroppo però il momento era sbagliato. Il Verona era in serie C e Gianmarco giocava già in B. Non se l’era sentita di andare, anche se lui è un veronese, è nato a Verona, vuol bene alla squadra, ma ovviamente meno di me, perché io il Verona lo amo. Adesso però mio figlio potrebbe anche giocare in A, non ci sono dei mostri lì». 
Magari al Milan. Alla fine alla Spal è soltanto in prestito…
«Lui si trova bene a Ferrara. È felice, gioca in un club glorioso. Però ascoltami: il Milan ha speso un sacco di soldi per giocatori che fanno le riserve e che guadagnano minimo 2 milioni l’anno. Al Milan aveva fatto vincere anche la Coppa Italia Primavera dopo un sacco di anni».
È una testa matta come il padre?
«No. È questo che mi fa rabbia. Io ero pazzo, non avevo voglia di allenarmi. Ero più appassionato di rugby che di calcio. Lui invece è serio, vuol sempre migliorarsi. Ha fisico, fa reparto da solo, in area è micidiale. Calcia sia di destro sia di sinistro. Io il destro al massimo lo usavo per salire sul tram. Però se in attacco con lui ci fossi io gli farei fare una valanga di gol in più».
Qual è stato il primo consiglio da calciatore che gli ha dato?
«Gli ho detto: “Ricordati Gianmarco, non abbatterti mai. Hai scelto il peggior ruolo che possa esistere, quello dell’attaccante. Se segni ti osannano, se non fai gol per una partita o due ti massacrano”. Guarda, mi è venuto in mente Bacca, quello del Milan: cazzo, ha fatto 15 gol quest’anno, cosa deve fare di più quel povero disgraziato?».
Suo figlio, anche se a livello giovanile, una decina di presenze in nazionale le ha fatte. Lei solo una.
«Non mi interessava andarci. Preferivo stare a casa, anche perché non mi facevano giocare, e poi avevo terrore dell’aereo. Mi aveva fatto debuttare Valcareggi, il mio grande amico Valca, a Bucarest. Abbiamo vinto 1-0 contro la Romania. Poi mi ha chiamato altre tre volte: ma in Svizzera fa giocare Boninsegna, in Bulgaria Pierino Prati. Allora gli faccio: “Mister, non chiamarmi più. Io non posso andare in panchina”».
Pentito?
«No, ero contentissimo così, me ne fregavo. Ma lasciami aggiungere una cosa…».
Dica.
«A volte penso, soprattutto quando sono in montagna a camminare, che il mondo è di tutti. È il mondo la mia bandiera, non l’Italia. La parola “straniero” mi dà fastidio, non mi piace. E poi io ero più innamorato della Roma, del Genoa, del Verona. I tifosi del Verona mi amavano, anche se io potevo dargli molto di più: mi impegnavo solo quando c’era bisogno, ero di una pigrizia impressionante. Avrò dato il 20-30%. A volte il calcio mi stufava, era una noia mortale, una rottura di coglioni. Non si poteva mangiare, non si poteva bere…».
Per spezzare questa «noia» lei una volta andò in panchina indossando una pelliccia.
«Sì, bianca. Era di lupo. Me l’aveva regalata una signora, non mi ricordo chi. Ma me ne avevano regalate anche altre. Valcareggi, mio allenatore pure al Verona, mi aveva detto: “Zigo, oggi tu non giochi”. Gli ho risposto: “Io? Il più grande giocatore del mondo? Ti faccio vedere…”. Ho messo anche il cappello da cowboy e sono andato in panchina così». 
Ma è vero che in ritiro Guidolin le portava la colazione a letto?
«Sì, era il mio compagno di camera ma anche il mio cameriere personale. Gli ordinavo brioche, tè e succo d’arancia. Che grande…».
Torniamo alla Juve. L’esordio a 17 anni contro l’Udinese. E subito un’amichevole contro il Real Madrid.
«Nel Real c’era Santamaria, un difensore fortissimo. Lo avevo fatto diventare matto. Durante una pausa va da Luis del Sol e gli chiede: “Ma chi è quel hijo de puta?”. Se volevo ero più forte di Pelè, non ce n’era per nessuno. Ma io non volevo».
In tivù non la si vede più. L’ultima volta è stata a «Controcampo» da Piccinini.
«Ho sempre detto di no a tutti ma quella volta avevano insistito talmente tanto che non me l’ero sentita di esser maleducato. I miei genitori mi hanno insegnato a essere cordiale con tutti. Non ho più voglia di andare da nessuna parte, mi sono rotto le balle. Una televisione è venuta anche dalla Spagna, a casa mia: “Por favor Zigoni, por favor”. Alla fine ho accettato. Ma dovrei stare sempre al telefono: poco fa mi aveva cercato un tuo collega da Napoli per chiedermi della Juve. Gli ho detto che non seguo molto il calcio, ed è la verità».
Allena ancora i ragazzini dell’Opitergina, a Oderzo?
«No. Nella vita arriva un certo momento in cui, se ti accorgi che le cose non le fai più con gioia, vuol dire che devi smettere di farle se no non sei più un uomo libero. E poi era un impegno, sai? Tre allenamenti alla settimana oltre alla partita. Non me la sono più sentita».
E cosa fa oggi Zigoni?
«In questo momento mi trovo in aperta campagna vicino al fiume, un posto meraviglioso. Sono con degli amici. E sai a cosa giocano? A foot-golf».
Golf col pallone da calcio… Ti piace?
«È proprio un gioco del cazzo».