la Repubblica, 16 maggio 2016
Cosa resta di Gino Bartali
All’improvviso la sua voce roca, dentro un monitor collegato a un vecchio lettore Vhs. «È tutto passato e non rimane niente, non voglio monumenti, non ho fatto la storia». La cassetta gracchia e stride, il sonoro va e viene e l’immagine balla. Ginettaccio è alla festa per gli 80 anni, su un palco al paese dov’è nato, Ponte a Ema: nel museo che porta il suo nome c’è anche questo reperto. Il tempo è il più spietato degli sprinter, in volata lascia indietro tutti e nel filmato Gino Bartali ha la faccia di qualcuno che sa, e che ha già visto arrivare quello che in un attimo svanisce.
Sulle colline del Chianti passa il Giro d’Italia, ma forse Firenze ha dimenticato Bartali. Diciassette visitatori al museo, venerdì. Sabato, sedici. Ieri, tredici. Eppure è un posto bellissimo. Cosa resta dunque di Gino Bartali a sedici anni dalla sua morte? Il museo di fronte alla casa natale racconta una storia difficile, in un certo senso emblematica. Costato due milioni di euro e inaugurato nel 2005 dopo il fallimento della prima ditta costruttrice, poi bloccato da una triste lite famigliare tra i figli Luigi e Andrea, il quale fece causa per una faccenda di diritti e sfruttamento del cognome, ora vittima di una certa stanchezza dell’amministrazione fiorentina che gestisce la struttura e da mesi non cambia neppure la lampadina dell’ascensore. Aperto solo qualche ora nei week-end per una dozzina di ore a settimana, il museo di Bartali è un clandestino, un reperto fossile in un’epoca che non ha tempo per la memoria.
«Eppure Bartali resta un grande del Novecento, non solo dello sport». Eugenio Giani è il presidente del consiglio regionale toscano ed era assessore allo Sport negli anni in cui il progetto prese il via, ne ha seguito da vicino slanci e sofferenza. «Bisogna darsi una mossa, portare qui le scuole, far sapere a tutti che il museo esiste ed è attivo. Bisogna lavorare sulla comunicazione ed estendere l’orario». Bisogna, anche, non lasciare solo l’uomo che Bartali incaricò di curare questo sogno. Si chiama Andrea Bresci, ha 71 anni ed è l’anima del museo. «Gino voleva che dalla finestra di casa si vedesse quello che lui intendeva come museo della bicicletta, non di sé, un omaggio a chi in sella aveva fatto anche più fatica di lui, senza ricevere in cambio quasi niente. Dalla morte di Gino il 5 maggio del 2000 è già quasi passata una generazione, purtroppo il ricordo non è più lo stesso. Qui dentro c’è chi guarda la maglia rosa di Alfredo Martini e non sa nemmeno chi fosse».
Gino Bartali fece in tempo a seguire la gara d’appalto, non ad assistere alla posa della prima pietra che il sindaco di Castellania, il paese di Coppi, portò a Ponte a Ema e che oggi è cementata vicino all’ingresso. Sapeva di avere una famiglia amata ma debole, divisa. Il figlio più giovane, Andrea, era il cocco di mamma Adriana: fu lui a convincere la signora a rivolgersi agli avvocati per una causa (persa) nel tentativo di lucrare qualcosa. «Questo spaventò gli sponsor del museo e raffreddò tutti, istituzioni e pubblico», dice Giani. «In tribunale abbiamo vinto noi, ma è stato un danno d’immagine per tutti». La signora Adriana è scomparsa due anni fa, Andrea abita nelle Marche e al telefono è sbrigativo: «Quel posto non m’interessa, il museo di mio padre me lo porto dentro». L’altro figlio, Luigi, è malato e la figlia Bianca Maria vive da tempo in Garfagnana, però stava dalla parte di Luigi e del museo. Tristezze famigliari, anche i figli di Coppi per anni non si parlarono. Fausto e Gino, sempre uniti nel passarsi borraccia (Gino a Fausto, nella celebre foto) e destini.
Eppure il museo a forma di ruota meriterebbe ben altro. Ci sono velocipedi antichi, un “triciclo autarchico” di epoca coloniale, una bici da arrotino, due biciclette di Bartali e quella del fratello Giulio, che morì giovanissimo in corsa come Serse Coppi, ancora un drammatico intreccio tra i due rivali, e altri cimeli unici: gli scarpini neri da corsa, il trofeo del Tour del ’48 che forse evitò la guerra civile quando spararono a Togliatti, la bici da pista che Gino usò per 19 anni perché ne aveva una soltanto, la maglia gialloblù della Sanremo ’52 e quella iridata di Fausto, la radio Phonola del tempo di guerra, quando Bartali salvò centinaia di ebrei nascondendo documenti falsi nel tubo della bici e guadagnandosi, nel 2013, il titolo di Giusto tra le Nazioni, i sandali da frate che calzava sempre, lui religiosissimo. Quanta strada nei suoi sandali.
«Gino Bartali era tante cose insieme», ricorda l’amico Andrea Bresci che porta una biciclettina d’oro sull’asola della giacca. «Era burbero, certo, ma aiutava tutti. Da vecchio, al seguito del Giro d’Italia parlava con i bimbi delle scuole che aspettavano la corsa lungo la strada, regalava borracce e bandierine. Tutti lo toccavano come se fosse un santo, ogni giorno stringeva decine e decine di mani: la sera andava a farsi dare una pomata dai massaggiatori dei ciclisti, perché aveva le dita gonfie così».
Morì lucidissimo, sperando non di essere ricordato come un eroe ma di avere vissuto una vita giusta e degna. Volle farsi seppellire con addosso il saio. Era una leggenda e lo sapeva, ma questo era un altro peso da portare. «La ressa lo spaventava. Quando lo invitavano alle feste ci mettevamo ore, dopo, per rientrare a casa». Oggi quella folla si è diradata fino quasi a scomparire. Gino Bartali è un puntino all’orizzonte. Sulla facciata della umile casa dov’è nato, al civico 118 di via Chiantigiana, hanno messo un cartello di divieto d’accesso che quasi copre la lapide. Sul campanello, solo nomi stranieri. E un’altra pietra, semplice e bianca, porta inciso il suo nome al cimitero di Ponte a Ema, dove una rosa rossa non manca mai.
Eppure resta assai poco, di Gino Bartali, nella geografia della città. Una piazza intitolata nella zona di Gavinana con un piccolo centro commerciale. Un chilometro più avanti, ecco la casa gialla dove Gino abitò per molti anni e morì, non certo la reggia di un campionissimo. Restano i tavoli e le sedie al circolo Arci dove andava per lo scopone, e dove un cartello scritto a mano avverte: “Tutti i martedì gara di briscola ore 22,10”. Restano un ricordo immenso e sfocato, un grande amore e una lampadina bruciata che nessuno sostituisce. Magari non “gli è tutto sbagliato”, ma molto da rifare ci sarebbe. Forse, anche questo immaginava Bartali parlando in quella videocassetta che adesso riavvolgiamo per ascoltarla ancora: «Non si deve aiutare il prossimo per poi vantarsi… Non ci sono più fascisti, comunisti, socialisti, che senso ha parlare di quello che ho fatto in guerra?... Tante corse ho vinto, altrettante ne ho perdute, amateci solo come sportivi perché il resto non conta… Dicevano che avessi un cuore piccolo, appena 39 battiti al minuto, invece era grandissimo e adesso lo spinge un pacemaker… Non dannatevi per accumulare denari, ché l’ultimo vestito è senza tasche». E Fausto, ancora, sempre: «Ha tanto sofferto, di sicuro adesso sarà in Paradiso. Io tra poco sarò in Purgatorio, ma siccome vo forte in salita lo raggiungo».