La Stampa, 16 maggio 2016
Eraldo Pecci ricorda quel giorno di lucida follia granata
Quarant’anni oggi. Una giornata che sarebbe bello rivivere con i suoi due artefici assoluti, Orfeo Pianelli e Gigi Radice. Ma se per il primo bisogna fare i conti con le leggi di natura, e ricordare semmai di portargli un fiore la prima volta che capiterà di passare per Villefranche, per il secondo c’è di mezzo la crudeltà di un destino che gli ha lasciato gli occhi di ghiaccio e il carattere di ferro, ma lo ha trasportato poco alla volta in una gabbia nebbiosa da cui non c’è speranza di uscire. E allora chi? E allora Eraldo Pecci, per una lunga serie di ragioni. Perché aveva vent’anni ed era l’ultimo arrivato. Perché con le sue scarpe grosse e il cervello fino fu lui a prendere il mazzo in mano. Perché ha scritto tre anni fa un libro delizioso su quello scudetto granata, «Il Toro non può perdere», ricordando tutti ma proprio tutti i protagonisti, dai campioni ai dirigenti ai magazzinieri ai centralinisti ai tifosi che lo ospitavano, e lo nutrivano. Perché per essere un romagnolo trapiantato a Bologna l’intensità del suo amore per il Toro è tuttora fortissima. Perché gli è rimasta la battuta fulminante, e in queste giornate da reduci un po’ di buonumore non guasta. Perché l’ultimo indirizzo di Pianelli me l’ha dato lui, il giorno che mi chiese dove era sepolto Bearzot.
Quel 16 maggio 1976, Eraldo, dal primo minuto all’ultimo.
«L’ultimo lo ricordo poco, perché finimmo a ballare al Boccaccio, proprio in faccia al castello del Valentino e non ho idea di che ora fosse. Il primo normalissimo, perché avevo dormito sodo come sempre e alle facce stralunate di Pulici e Castellini che le vigilie le passavano in bianco ero abituato. L’incoscienza dei vent’anni me la faceva sembrare una domenica normale, dopo colazione scendemmo come sempre da Villa Sassi prendendo il sentiero di destra verso la chiesa. Il solito pranzo di quei tempi, risotto e filetto alto quattro dita che oggi porterebbe all’arresto in flagrante del dietologo, la chinamartini di Pupi e via verso lo stadio».
Magari fu la chinamartini che lo spinse a mettere la testa a pelo d’erba su quel cross di Graziani...
«Primo, Paolino Pulici non aveva bisogno di additivi. Secondo, c’era anche la scarpa di Danova che era convinto di arrivare lui a rinviare. Una bestia da area di rigore come Pupi io non l’ho mai vista. Comunque sembrava fatta, invece arrivò la frittata tra Castellini e Mozzini e insomma non riuscimmo a battere il Cesena che si giocava, e ottenne, l’Uefa. Per fortuna la Juve perse a Perugia e vincemmo quel benedetto scudetto».
Giri di campo, migliaia di bandiere granata che sembravano milioni, lacrime a volontà.
«Ma mica poi tante. Castellini sì, era il più emotivo di tutti, e anche il presidente. Ma lasciami dire una cosa da vecchio, che allora erano tempi più seri, non ancora da reality. E prima di lasciarsi andare a piangere in pubblico un uomo ci pensava due volte, anche per il primo scudetto dopo Superga».
Vabbè, facciamo occhi lucidi. E al tramonto, tra un corteo e l’altro per la città, un salto in sede e la scoperta del presidente addormentato in poltrona, sfinito dalle emozioni.
«Lo vedi che sei un patacca? Questa me l’hai raccontata tu. Che a un certo punto, finito di scrivere e a caccia di spunti per il giorno dopo, sei capitato in corso Vittorio, sei salito, la porta era aperta e hai visto il presidente ancora nel suo doppiopetto portafortuna che russava nel salone».
Confermo. Ma adesso tocca a te confermare che fosti tu il punto di svolta di quel Torino. Perché Patrizio Sala portò un dinamismo inedito, con e senza palla, Caporale un’interpretazione più moderna del ruolo di libero, ma gli altri per bravi che fossero c’erano già prima. Fu Eraldo Pecci con i fianchi non sottilissimi e il 44 di piede a prendere in mano la bacchetta e a dirigere l’orchestra come voleva Radice.
«Guarda, io di quei cinque davanti, Claudio Sala-Pecci-Graziani-Zaccarelli-Pulici, ero il meno dotato. Il fatto è che forse non sapevano quanto erano forti e io, mettendomi al loro servizio, li ho aiutati a capirlo. Ma lo sentivo allora e lo penso razionalmente oggi: sono stato fortunato io a capitare tra Claudio e Zac, tra Ciccio e Pupi, proprio quando era il momento di raccogliere. Pupi era l’emblema del Toro, Claudio giocò un campionato mostruoso. Ma vi raccomando gli altri due, e l’intelligenza di Salvadori, e sopra a tutto la mano di Radice nel plasmare quella grande squadra».
Anche se, come racconti nel libro, ti dava del pirla ad ogni piè sospinto?
«Magari potesse continuare ancora oggi. Ma era una recita a due voci: ero io a reclamare del pirla. “Eraldo, com’è andata con la Militare in Egitto? Ho letto che c’erano 40 gradi all’ombra, riposati”. E io: “Ma mister non sono mica scemo, all’ombra non ci stavo mai”. Cosa poteva dire, se non che ero un pirla? Da non confondere con piciu, che è la stessa roba ma era il modo in cui mi apostrofava, con affetto, Pianelli soprattutto quando vincevo con lui a carte».
Ma quanto mangiava Patrizio Sala?
«Non potete farvene un’idea. Correva eh, correva anche per noi, soprattutto per me. Ma un suo pasto normale era il triplo di uno nostro abbondante. Il bello è che mangiava con la testa nel piatto, ma aveva un sesto senso per beccare il vassoio che passava alle sue spalle e ricominciare».
Caro Eraldo, quanto ti è rimasto sottopelle il Toro?
«Non ne hai idea. Vivo in Romagna, ma ogni due per tre se non sono a Torino sono nelle Langhe. Modestamente ho giocato con Maradona. Ma il mio mondo è rimasto quello del Toro e della sua gente, dei miei compagni di allora. Anche se…».
Anche se?
«Parlo dell’Ac Torino. Capisco che i colori sociali siano gli stessi, ma non facciamo confusione con il Torino Fc. E chiudiamola qui, perché non mi viene la battuta e oggi è il giorno della nostra festa».