MilanoFinanza, 14 maggio 2016
Esiste un banchiere perbene? Uno di loro si racconta
Esiste un banchiere perbene? È una domanda che ci poniamo spesso. Non solo di fronte agli scandali finanziari che negli ultimi anni, in Italia così come all’estero, hanno riempito le cronache e che ancora continuano a riempirle. Ma anche nel rapporto quotidiano con gli istituti di credito.
Nell’immaginario collettivo il banchiere, con i suoi super-stipendi, i suoi bonus e le sue stock option, è spesso raffigurato come lontano, se non addirittura incurante, rispetto alle esigenze delle piccole imprese, oggi come non mai bisognose di credito, e delle famiglie, che necessitano di veder tutelato al meglio il proprio risparmio. Eppure, mettendo da parte il populismo che fa di ogni banchiere un farabutto o nel migliore dei casi una persona che punta esclusivamente a massimizzare il proprio tornaconto in termini economici e di potere, la realtà appare molto più sfaccettata di quello che sembra. In questo senso la lettura di Sabbie mobili, il libro scritto da Fabio Innocenzi, che ha come sottotitolo proprio l’interrogativo iniziale (Esiste un banchiere perbene?) può aiutare a capire meglio le dinamiche interne alle grandi banche e al sistema finanziario, mettendo il lettore nelle condizioni di esprimere in maniera compiuta un proprio giudizio. Che non deve per forza di cose essere assolutorio.
Dal lavoro di Innocenzi, che ripercorre la storia recente del sistema bancario italiano attraverso la propria vicenda personale – dagli inizi al Credito Italiano di Lucio Rondelli e Alessandro Profumo agli anni alla guida del Banco Popolare, dalla stagione dei furbetti del quartierino e della Banca d’Italia di Antonio Fazio a quella delle fusioni bancarie con Mario Draghi a Palazzo Koch, fino al suo coinvolgimento nell’inchiesta Italease e alla piena assoluzione dopo un’odissea giudiziaria durata cinque lunghissimi anni – emerge come sia difficile, anche per chi vive le banche dall’interno, capire chi abbia avuto comportamenti scorretti e chi no. Figurarsi per chi vede le cose da fuori.
Per chi, nei giornali, sul mercato o tra i piccoli azionisti delle banche coinvolte, ha seguito dall’esterno la vicenda Italease, era facile, ad esempio, essere portati a pensare che Innocenzi non potesse essere estraneo a quanto accaduto. Il Banco Popolare era il primo azionista di Italease e Innocenzi ne era il vicepresidente, oltre che un banchiere ritenuto competente e preparato, come pensare che non avrebbe potuto accorgersi della truffa messa in atto da Massimo Faenza e dai suoi complici? Nel libro Innocenzi, che continua tuttora a fare il banchiere (dopo aver lasciato il Banco ha lavorato in Intesa Sanpaolo e dal 2011 è amministratore delegato di Ubs Italia), racconta la sua storia, mettendo in fila i fatti di cui è stato protagonista, le scelte, spesso difficili, di fronte alle quali si è trovato, da un punto di vista non solo operativo ma anche umano. Dalla storia emerge con chiarezza l’estraneità di Innocenzi ai misfatti compiuti da Faenza e dai suoi sodali. Una storia che a suo tempo aveva già convinto Roberto Pellicano, il pm che nel 2008 aveva avviato l’indagine nei confronti di Innocenzi e che poi ne aveva chiesto inutilmente l’archiviazione. Ma il meccanismo kafkiano della giustizia italiana, alimentato dal clima di caccia al banchiere che si era diffuso dopo la crisi dei mutui subprime e il fallimento di Lehman Brothers, si era ormai messo in moto e Innocenzi ha dovuto aspettare cinque anni prima di ottenere la piena assoluzione.
Nel corso del racconto l’ex ad del Banco non nasconde quelle che ritiene essere le sue responsabilità. Si rimprovera di non aver dato ascolto a Massimo Minolfi, allora dg della popolare veronese, che lo aveva messo in guardia rispetto alla moralità Faenza («Attento, ti porta fuori con qualche donnina e ti fa fotografare. Poi sono cazzi!»), e dell’allora presidente di Italease Lucio Rondelli, che detestava (ricambiato) il manager romano e i suoi atteggiamenti esuberanti, le sue frequentazioni con gli immobiliaristi e il sottobosco della capitale, ma che nonostante le verifiche commissionate all’audit interno alla banca non era riuscito a trovare le prove delle sue ruberie. Allo stesso tempo Innocenzi ammette un profondo senso di colpa per la morte dell’anziano banchiere, convinto a lasciare una pensione dorata per assumere la presidenza di Italease nella speranza che potesse, se non redimere, almeno essere da contrappeso all’amministratore delegato. «Quando gli ho chiesto di diventare presidente», ricorda Innocenzi nel libro, «è iniziata un’avventura che non abbiamo saputo gestire bene. Non riesco a togliermi dalla testa che tra le cause della sua morte ci sia l’amarezza».
Questa tensione tra etica, regole di mercato e business emerge anche in altri passaggi del libro. Nel 1993 Innocenzi, allora giovanissimo responsabile del risparmio gestito del Credito Italiano, chiese proprio a Rondelli, allora presidente di Piazza Cordusio, di chiudere la propria gestione patrimoniale in titoli e di investire invece nei fondi comuni della banca per evitare conflitti di interesse. «È un atteggiamento da ayatollah, da integralista. Attento a non esagerare. Non siamo nel socialismo reale. Ricordati che il tuo primo obiettivo è di fare bene le cose. Non è quello di fare il poliziotto sul mercato né il sacerdote dei dogmi comportamentali», fu la risposta scocciata di Rondelli. Ma si può dire che Innocenzi abbia usato lo stesso metro quando pochi anni più tardi, assieme a Pietro Modiano, suggerì a Profumo di spostare da Milano a Dublino la sede delle attività di asset management di Unicredit per alleggerirne il carico fiscale e avere così più risorse disponibili per fare gli investimenti necessari a crescere? «È come chiedere allo Stato italiano di finanziare un investimento per rendere competitiva la nostra industria del risparmio gestito», era il dubbio di Innocenzi. Che però durò lo spazio di una conversazione con Modiano. «In realtà il fisco italiano non ci rimette nulla, perché, se ci limitassimo a dare l’incarico a Capital Group, il Tesoro comunque perderebbe lo stesso ammontare di imposte e l’Italia avrebbe perso la più importante azienda di risparmio gestito». Dalla lettura del libro emerge dunque che tra il bianco e il nero esiste una vasta area grigia in cui è difficile valutare quale sia un comportamento virtuoso e quale invece, pur non configurando alcun reato, sia comunque degno di essere censurato. Di esempi è disseminato il racconto: dalla decisione del management della Popolare di Lodi del dopo-Fiorani di licenziare un piano industriale con obiettivi, si scoprirà, fuori portata per convincere il mercato a sottoscrivere l’aumento di capitale da 1 miliardo ed evitare alla banca il tracollo, all’imperizia degli uomini della Bpvn e dei loro advisor nel non accorgersi in fase di due diligence delle carenze patrimoniali della Bpl e di procedere comunque alla fusione che darà vita al Banco.
Che cosa è giusto? Che cosa è sbagliato? Domande che l’autore si pone anche confrontando i modelli di business delle due grandi banche italiane, quello dell’Unicredit di Profumo, in cui il faro era la creazione di valore, e quello più attento ai compromessi con gli stakeholder portato avanti in Intesa Sanpaolo da Giovanni Bazoli e Corrado Passera. Innocenzi, forte della sua esperienza in entrambe le banche, sembra alla fine propendere per il modello Intesa. «Adesso capisco ancora meglio perché Intesa non ha vissuto i momenti difficili di Unicredit, del Banco Popolare, delle tante aziende che erano considerate eccellenti e da imitare prima che scoppiasse la crisi». Ma, superata la crisi, quando lo spirito dei tempi cambierà nuovamente, non è detto che la risposta cambi nuovamente. Di questo Innocenzi ne è consapevole: «Quello del banchiere è un mestiere pazzesco perché devi bilanciare tre esigenze fondamentali: la tutela del risparmio delle famiglie, l’esigenza per le imprese di essere finanziate, la necessità per la banca di fare profitti in grado di remunerare il capitale investito. Se una sola di queste esigenze non viene soddisfatta, significa che non abbiamo fatto bene il nostro mestiere».