La Stampa, 14 maggio 2016
Processo Yara, per Bossetti sono i giorni dell’accusa
All’inizio era il Dna. «C’era solo il Dna, non un indagato». E questo per il pm Letizia Ruggeri, alla settima ora di requisitoria, dimostra «la bontà del percorso scientifico», costruito non attorno a un individuo ma per trovare l’identità di un assassino rimasto sconosciuto per quattro lunghissimi anni e che adesso siede vicino ai suoi avvocati ascoltando con aria quasi svagata e con un’abbronzatura davvero incredibile ciò che il pubblico ministero dice, tirando le somme di 6 anni d’inchiesta e mesi di processo per presentare un conto al quale è difficile sfuggire.
Nessuna emozione
Un Dna «con una parcellizzazione così precisa che il suo risultato assume valore di prova», con «un margine d’incertezza pari a zero». E che, secondo l’accusa, inchioda il suo possessore a quella che nella prossima udienza quasi sicuramente sarà una richiesta di ergastolo. Massimo Bossetti, con un maglioncino viola, lo stesso indossato durante le prime udienze, ascolta senza dar cenni di emozione. Eppure è lui l’uomo a cui portano i «match» di ben 23 marcatori eseguiti su 18 prelievi di liquido organico ritrovato sui leggins e le mutandine di Yara Gambirasio. Un uomo, raccontano la prova biologica e gli indizi raccolti sul cadavere offeso della tredicenne lasciata morire in un gelido campo a pochi chilometri da casa,«nato e cresciuto in queste zone, che lavorava in campo edilizio, nato a Clusone, che è stato residente a Brembate, con lavori sempre svolti in zona. Non un pastore sardo o un cercatore di tartufi piemontese o, peggio ancora, un immigrato, ma un muratore bergamasco». Come ce ne sono tanti ma che il Dna isola nella figura unica su centinaia di miliardi di individui, di Bossetti.
Il «favola», come lo chiamavano nei cantieri, l’uomo che scrive lettere cercando «pelo rosso» o «vagine rasate», come compulsava in Internet a casa. «Non sapevamo assolutamente chi fosse, non era un sospettato, il suo Dna non era mai stato raccolto, e questo sgombra il campo dal voler trovare a tutti i costi un colpevole». Il pm Ruggeri, non alza mai la voce, non si accalora in questa lunga requisitoria che terminerà il 18 maggio prossimo. Ma con una pazienza certosina mette insieme i risultati di un’indagine «che forse non ha pari al mondo», che ha controllato migliaia di persone, migliaia di telefonate, centinaia di testimoni, prima di arrivare a inchiodare quell’unico muratore di Mapello che quando vide arrivare i carabinieri in cantiere «tentò di fuggire agli investigatori. Un comportamento sintomatico della consapevolezza che le forze dell’ordine erano lì per lui», secondo la pubblica accusa.
Una ricostruzione puntigliosa delle indagini e degli approfondimenti scientifici che fanno piazza pulita di ogni suggestione, di ogni elemento spurio introdotto in questi mesi di dibattimento, di ogni fantasia che avrebbe voluto allontanare da Bossetti sospetti e certezze, sfociati addirittura nel reato di calunnia, per aver accusato del delitto un compagno di lavoro.
Le prove e gli indizi
Invece le prove e gli indizi sono tanti e fanno impressione. E i reati sono lì a raccontarlo. Yara, che oggi avrebbe 19 anni e che sparì quando ne aveva 13, fu abbandonata in un campo incolto a pochi chilometri da casa in una notte fredda di novembre, dopo essere stata portata con violenza tra gli arbusti, picchiata, colpita con un coltello.
«L’abbondante produzione di acetone ritrovato tra gli organi di Yara ha rivelato lo stress subito da questa bambina. Così come l’edema polmonare ci ha raccontato che ha avuto difficoltà respiratorie prima di morire. Stava perdendo sangue, avrà provato, dolore, paura e freddo». Ed è proprio il freddo che alla fine la ucciderà, dopo una lunga agonia sopraggiunta senza nemmeno arresto cardiaco: morta nel peggiore dei modi, abbandonata a pochi chilometri da casa dopo essere stata picchiata senza probabilmente nemmeno capire il perché.