Corriere della Sera, 14 maggio 2016
Thyssen, la fine a nove anni dal rogo
L a linea 5 dell’acciaieria fumava ancora. L’auto sulla quale viaggiava Raffaele Guariniello incrociò le ambulanze che stavano portando via gli ultimi operai feriti. Nel cortile, il magistrato si avvicinò a un infermiere esausto e scosso, che si era seduto a terra. Parlò ancora prima di sentire qual era la domanda. «Moriranno tutti» disse. «Sono conciati in modo orrendo. Non ce la possono fare». Poi si mise le mani in faccia e cominciò a piangere.
Era la notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007. L’infermiere aveva ragione. I sette lavoratori della Thyssenkrupp se ne andarono nel giro di pochi giorni. Ma solo Antonio Schiavone, che aveva 36 anni e tre figli piccoli, morì subito, in quella che tutti chiamavano la fabbrica dei tedeschi. Ai suoi sei colleghi toccò una agonia in alcuni casi lunga ma sempre ingiusta, perché senza speranza, coperti com’erano da ustioni sul 95 per cento del loro corpo. Al mattino seguente, la riunione in Procura durò pochi minuti. Marcello Maddalena, il capo, diede carta bianca. Fate bene, fate presto, fu sostanzialmente il messaggio. Avete tutti gli strumenti e le competenze necessarie. Le perquisizioni e i sequestri, pratica fino ad allora inusuale nelle indagini che riguardano gli incidenti sul lavoro, vennero decisi anche approfittando dell’ondata emotiva che si era creata a Torino e nel resto del Paese dopo quella tragedia così atroce. «Per una volta non lavorammo sentendoci abbandonati alla nostra sorte» ricorda oggi Guariniello. «Ma solo gli elementi concreti ci consentirono di arrivare al vertice dell’azienda, e poi subito al processo».
Fu un Natale triste per Torino. Il sindaco Sergio Chiamparino prese la decisione di spegnere le luminarie e di annullare ogni festeggiamento. L’inchiesta venne chiusa in meno di tre mesi. Quarantamila pagine di atti, 170 testimoni ascoltati. Ad Harald Espenhahn, amministratore delegato di Thyssenkrupp in Italia, venne contestato l’omicidio volontario con dolo eventuale. Non era mai accaduto prima, in Italia e in Europa. La decisione di Guariniello fece scalpore e sollevò un dibattito furibondo. Secondo la Procura, il dirigente sapeva che le misure di sicurezza non erano state rispettate. Quelle sette persone erano morte in una fabbrica quasi dismessa. Semplice politica aziendale. Torino stava chiudendo, era un ramo secco. Non valeva più la pena spendere soldi per quello stabilimento. Un centinaio di operai stavano ancora lavorando all’unica produzione superstite, acciai destinati alla costruzione di marmitte per auto, ma erano gli ultimi degli ultimi, con un futuro ormai segnato.
«Ne cagionava la morte, in qualità di amministratore delegato». Ci vollero quasi quattro anni per arrivare alla sentenza di primo grado. Tutto il dibattimento girò intorno a questa frase, pronunciata dal giudice la sera del 15 aprile 2011. Gli avvocati della difesa sostennero che quell’accusa così contestata era il frutto di una scelta emotiva. Guariniello ribattè sostenendo che le indagini, condotte con tempestività innaturale per quel che riguarda i reati in materia di sicurezza sul lavoro, avevano fatto scoprire le condizioni di crescente abbandono e insicurezza dello stabilimento di Torino. «Sette morti annunciate» le definì nella requisitoria finale. Le motivazioni della sentenza stabilirono che l’imputato Harald Hespenhahn, condannato a 16 anni di reclusione, era consapevole della concreta possibilità di gravi incidenti. Non poteva nutrire la certezza che non si sarebbe verificato un incendio. Era l’enunciazione dell’ormai celebre dolo eventuale.
Il processo d’appello si concluse il 28 febbraio del 2013 con una specie di pareggio. La Corte d’Assise cambiò la natura dei reati contestati ai vertici dell’azienda, riportandoli nell’alveo dell’omicidio colposo. Ridusse l’entità delle condanne inflitte ai sei imputati, in alcuni casi dimezzandole, e soprattutto cancellò quell’ipotesi d’accusa che per qualche tempo sembrò aver rivoluzionato la giurisprudenza delle morti sul lavoro. I parenti delle vittime occuparono l’aula, e si convinsero a uscire solo dopo l’intervento di Guariniello. Nell’aprile del 2014 la Corte di Cassazione rimandò il processo a Torino, ma solo per la ridefinizione delle pene. Si celebrò un nuovo appello che il 29 maggio 2015 stabilì le condanne confermate ieri dalla Cassazione, dopo una giornata da ottovolante che aveva fatto temere un’altra puntata di questa vicenda. «Provo sempre disagio» dice Guariniello «quando si tratta di privare un uomo della sua libertà personale. Espenhahn e gli altri imputati non sono dei mostri. Hanno sbagliato, pagheranno. L’importante è che sia finita».
Ci sono voluti quasi nove anni. «Mi metto nei panni dei familiari: un’attesa insostenibile, un tempo infinito durante il quale si perde il senso di quel che è stato. Matteo Renzi ha ragione quando dice che i processi sono troppo lunghi. E la soluzione del problema non può essere la censura degli avvocati che hanno ogni diritto di usare gli strumenti a loro disposizione. Prima o poi la giustizia arriva, ma sempre troppo lentamente». Raffaele Guariniello è andato in pensione da pochi mesi. Oggi fa il consulente della Camera dei deputati. Nel 2015 gli infortuni mortali sul lavoro in Italia sono aumentati del 16 per cento rispetto all’anno precedente.