la Repubblica, 14 maggio 2016
La crisi è arrivata anche a Cannes
In Italia il dibattito sul destino dei festival di cinema è da tempo una costante stagionale. Specie dopo la creazione del festival- festa di Roma e la progressiva affermazione del festival di Toronto, quasi sovrapposta alla Mostra di Venezia. Ma anche i francesi evidentemente si pongono il problema, se a difesa di Cannes si è sentita in dovere di intervenire addirittura la ministra della Cultura Audrey Azoulay. La domanda chiave è del quotidiano Libération con la sua inchiesta titolata “Cannes: utile o futile?”. A rispondere erano chiamati produttori, registi, uffici stampa, programmatori. Molti dei quali hanno avuto o avranno titoli da presentare al festival, e hanno forse prevedibilmente risposto con varie sfumature che, insomma, sì: Cannes è utile, anzi utilissima. E indubbiamente, nonostante il mutare dei tempi, il festival sembra funzionare. Adempie alla sua funzione di grande contenitore, anche se spesso ci si lamenta (anche quest’anno) di titoli del concorso che potevano stare nelle altre sezioni, e viceversa. La crisi economica, beninteso, si sente da un po’ anche qui, specie sul versante mondano. Le produzioni straniere rimangono lo stretto indispensabile, diminuiscono le feste e (con grande scorno dei giornalisti) i gadget. Ma il Marché, nonostante la citata crescita di Toronto, resta un appuntamento centrale per l’industria, e le varie sezioni del festival un aggiornamento indispensabile per i cinefili. Sul tappeto rosso quest’anno sono già passati fior di divi americani e non: insomma il glamour, per quel che vale, regge. I giornalisti e il pubblico si sottopongono volentieri a code che in qualunque altro festival non accetterebbero, e anche se a detta dei frequentatori di lunga data “non ci sono più gli afflussi di una volta” gli accreditati sono sempre intorno ai 40mila.
Qualcosa di strutturale, però, sta cambiando, o si teme che cambi. E non solo a Cannes. Un segnale inquietante è apparsa la drastica riduzione della copertura del festival da parte della catena televisiva Canal+, che dopo vent’anni ha deciso una presenza più leggera, mantenendo le dirette delle serate di apertura e chiusura ma eliminando la festa annuale sulla Croisette, il Patio riservato alle public relation, e una trasmissione quotidiana già prevista. Il settimanale Les Inrockuptibles, in un’inchiesta, lancia l’ipotesi che il nuovo patron della catena, Vincent Bolloré, azionista di maggioranza di Vivendi, abbia voluto dare un segnale a tutto il cinema francese. Perché sì, la copertura mediatica del festival costava al gruppo 6 milioni di euro, ma Canal+ è soprattutto la più importante finanziatrice privata del cinema transalpino: 225 milioni di euro, che consentono di produrre oltre 100 film l’anno. Le rassicurazioni di Bolloré (che garantisce di rinnovare e anzi aumentare l’impegno verso il cinema, anche quello meno commerciale) non devono aver funzionato molto, se la ministra Azoulay si è pubblicamente impegnata a obbligare Canal+ a mantenere i propri investimenti nel settore. La Francia, che giustamente guardiamo con invidia, come un modello prossimo e ideale di industria e di impegno dello Stato, mostra forse qualche crepa, o qualche inquietudine. Certo è che mantenere il prestigio, l’importanza e i costi di un festival di cinema così grande, in un mondo di media in mutazione, non è affare pacifico, e se ne comincia a parlare sempre più spesso.