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 2016  maggio 14 Sabato calendario

Renato Zero dice di non aver mai perso d’occhio il panettiere

Da lui il pubblico ha accettato tutto. Zeropensiero, zeromanie, zerofobie, zerolandie, zeroslang. L’hanno sempre sentito vicino di casa, Renatino, il jolly della famiglia. O il matto? Matto simpatico, però. Irresistibile.
Trasgressivo? La parola fa ridere abbinata a un personaggio che attira più sorci del pifferaio di Hamelin. Renato Zero, 65 anni, impastato da quasi mezzo secolo con la canzone italiana, dal suo pubblico ha accettato tutto. Le lusinghe, gli appostamenti, le coccole, la caciara. E in tempi più remoti, quando il carrozzone non era ancora partito, qualche umiliazione. Ma anche allora, quattro chiacchiere e un vaffa – quando i fan diventano invadenti – non li negava a nessuno, dice l’artista, fresco del successo dell’album Alt (il trentacinquesimo da No! Mamma, no! del 1973) e in ansia per i concerti di giugno all’Arena di Verona.
«Mi sono disteso sul lettino da solo, senza cercarmi uno strizzacervelli, mi sono autoanalizzato, ho fatto gli anticorpi alle intemperie, ai repentini cambi di stagione, alle avversità. Questo è il segreto della mia longevità, non come Fiacchini (il suo vero cognome, ndr) ma come Zero. Ho sempre mantenuto stretto il rapporto con la gente».
«Mai perso d’occhio il panettiere, la lavandaia, la portinaia, gli operai dell’Ama che spazzano i marciapiedi di Roma. È una necessità. Avere il contatto con la gente semplice, vera, è il termometro che misura i cambiamenti, prepara alle emergenze, favorisce le opportunità, suggerisce le intuizioni. Sempre con consapevolezza e partecipazione. Grazie a loro ho rallentato, ho schivato la frenesia dei nostri tempi, ho seguito il ritmo della gente normale non quello che impongono i cambiamenti tecnologici e la smania d’apparire. Non sarebbe stato possibile senza i sorcini, alleati formidabili in questa mia missione nel mondo della canzone». I primi, i pionieri, sono ormai nonni ma non l’hanno abbandonato. E hanno fatto uno straordinario lavoro di mediazione con figli e nipoti, una devozione che si è tramandata. I più giovani vengono nel camerino a portargli i saluti della nonna, della madre, di quel fratello o di quella sorella. «Mio figlio ascolta le tue canzoni da quando era ancora in grembo», gli dicono. «Ormai sono entrato nel loro dna», scherza Zero. «Mi hanno aiutato a sopportare la solitudine, che è una scelta di cui non mi pento. È la mia compagna di vita, l’ho amata, le ho messo dei bei vestitini, l’ho pettinata, l’ho tenuta sempre in ghingheri, l’ho portata a cena, al cinema e lei ne è stata contenta, e adesso è una irrinunciabile compagna. Dunque io, uomo senza famiglia e con tanto tempo libero a disposizione, a chi dovrei dedicare le mie attenzioni se non alla gente?». Lo ripete da una vita: l’artista deve lavorare sempre e solo per il pubblico. Una imprescindibile forma di rispetto e gratitudine che lo anima fin dagli esordi, quando ereditò da Anna Magnani, diva come lui incatenata a Roma, quell’affettuoso «Ciao nì» che nel 1979 fu anche il titolo del film di Paolo Poeti in cui Renato interpretava se stesso.
Passeggiando nel cuore della capitale, insospettabili sorcini spuntano da ogni dove: la tabaccaia e il barista che gli prepara un decaffeinato speciale che neanche sembra deca, i portalettere, signore ingioiellate e griffate, facchini, autisti e muratori (e lui non stona mai con i suoi completi Miyake in mezzo a tute, grembiuli e divise). Ma soprattutto tanti nonni e nipotini, un popolo che gli tocca il cuore. «Io penso sempre, ossessivamente, a vecchi e bambini, che si somigliano tanto e sono entrambi vittime di un’umanità che si sta deteriorando», mormora. «I primi abbandonati sulle panchine sotto il sole di agosti desolati, gli altri abusati e lasciati alle cure di maestri a volte impreparati e violenti. Da piccolo – mio padre era un poliziotto, mia madre lavorava negli ospedali – ero affidato alle cure della nonna Renata, una nonna coi baffi. Il pomeriggio, doposcuola, mi portava con sé in visita ai parenti tra Prenestino e Casilino, tutti anziani. Per me erano rassicuranti, li vedevo come piccoli maghi, un po’ goffi, coi grossi nei da cui spuntavano i peli. Per questo ho un grande rispetto per i bambini, comprendono le cose meglio di quanto immaginiamo, hanno un intuito formidabile. Spesso, crescendo, perdiamo di vista chi eravamo e dimentichiamo una lezione fondamentale, il rispetto per gli anziani. Bambini e vecchi hanno le stesse paure e le stesse speranze. L’esclusione degli anziani dalla vita sociale mi ferisce (l’ha cantato anche in una delle canzoni più drammatiche, Spalle al muro, nel 1991), come mi addolora l’assenza dei genitori dalla vita dei piccoli, ora che senza due stipendi sembra impossibile governare una famiglia. E le strutture educative, lo abbiamo capito ormai, non sono abbastanza ossigenate e ossigenanti da garantire una crescita equilibrata».
Ha trascinato dalla sua anche quelli che all’inizio lo deridevano, quando ancora non aveva l’immunità che il successo garantisce. Inevitabile, a sedici anni era già un ragazzo diverso che aveva un sogno stampato in testa. Sette anni di gavetta non sono pochi per uno che usciva di casa con i costumi nascosti in un borsone che poi indossava nelle toilette della stazione prima di qualche spettacolino in locali di quinta. Molti di quelli che sulla circolare lo deridevano sono diventati sorcini. Nessun risentimento. «Nì, so’ tanti anni che calpesto ‘ste tavole», riflette. «I dissapori e le mancate intese con il popolo del marciapiede mi hanno scatenato una rabbia utile che mi ha aiutato a motivare la mia cocciutaggi-ne. Quelle umiliazioni che avrebbero dovuto scoraggiarmi sono state in realtà una sorta di incitazione. Devo molto ai miei detrattori, a quelli che mi deridevano. Anche discografici. Quando mi presentai alla Rca volevano a tutti i costi trasformarmi in una sorta di nuovo Gianni Morandi. “Dobbiamo ripulirti l’immagine”, dicevano. “Se vuoi diventare qualcuno in questo mondo devi essere rassicurante e non traumatizzare i funzionari Rai, non passerai mai in tivvù conciato così”. La musica e i sorcini mi hanno salvato la vita. Non ho mai avuto un piano B. Giuro. Mi sono disteso sul mio lettino privato senza mai andare da uno psicoterapeuta. Le sedute anziché con i soldi le ho pagate con i sacrifici. Dopo quegli incontri con me stesso ho scritto Il cielo, Manichini, Mi vendo, Nei giardini che nessuno sa». E negli incontri di gruppo con i sorcini ha esorcizzato tutti gli spettri dello star system e le paure. «Ne resta qualcuna», conclude. «Non essere più presente a me stesso, perdere l’ispirazione, non essere più in grado di recitare in questo film, restare tagliato fuori dalla sceneggiatura. Non è la morte che mi spaventa, piuttosto il fatto di non essere più all’altezza, di essere sostituito da un altro nel cuore dei fan. Voglio continuare a essere utile a qualcuno con la musica che chiamiamo leggera. Ce la metto tutta, non fumo, non bevo, niente droga, manco l’lsd, manco le canne. Sono sempre stato esigentissimo con me stesso. Non potrei vivere nello sballo, distante dalla realtà, che anche quando è dolorosa ti fa sentire vivo. Io mi sono anestetizzato non volando in alto ma restando attaccato alla terra, alla gente». Zero assoluto.