la Repubblica, 14 maggio 2016
«Fatemi chiamare da Di Maio». Il grido di rivolta di Pizzarotti contro «la rete»
“Sono un pubblico ufficiale, non inoltro documenti a un indirizzo senza nome. Fatemi chiamare da Di Maio”. Così il sindaco di Parma Pizzarotti risponde a una specie di dispaccio burocratico firmato “staff di Beppe Grillo” nel quale gli si intima di consegnare carte relative alla vicenda giudiziaria conseguente alle nomine al Teatro Regio. Non so se lo “staff di Beppe Grillo” e anche lo stesso sindaco di Parma vogliano e sappiano valutare la drammaticità a suo modo storica delle poche parole di Pizzarotti. Suonano come un grido di rivolta contro l’idea che non persone o associazioni di persone, ma “la rete”, in questa o quella formula algoritmica, in questa o quella riduzione di un “movimento” a una stanza dei bottoni, sia un interlocutore politico attendibile. Quel “fatemi chiamare da Di Maio” reclama una faccia e un nome. È una richiesta disperatamente comprensibile, come ogni volta che un potere si manifesta in forme astratte e dunque – alla lettera – disumane. Niente di nuovo sotto il sole, non c’è processo politico né stalking burocratico né intrusione “dall’alto” che non abbia cercato di manifestarsi, nei secoli, come una istituzione il più possibile impersonale. Ma così come l’imputato, specie se si ritiene innocente, non vede l’ora di incontrare il suo giudice, Pizzarotti vuole vedersela con Di Maio. Perché “uno vale uno”.