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 2016  maggio 14 Sabato calendario

Cresciamo troppo poco, così non va

Cresciamo metà dei nostri partner dell’euro. L’incremento dello 0,3% del Pil stimato ieri dall’Istat per il primo trimestre ’16 francamente non ci può bastare e non solo per l’ovvio confronto con Francia, Germania e Spagna che ci assegna per l’ennesima volta il ruolo di Cenerentola. Non ci può bastare perché proiettato nell’immediato futuro equivale, secondo il giudizio degli analisti, all’1% per l’intero 2016. Se fosse così – ed è molto probabile – avremmo sprecato quella che il ministro Pier Carlo Padoan aveva giustamente definito «una finestra di opportunità» e che si giovava di un irripetibile combinato disposto di basso prezzo del petrolio, politiche espansive della Bce e appetibilità dell’euro. Condizioni che non dureranno all’infinito, non aspetteranno i nostri comodi.
Ora, è vero che qualche segnale positivo nei dati dell’Istat, e più in generale nelle cose che sappiamo sull’andamento dell’economia reale, lo si può rintracciare: la domanda interna seppur lentamente ha ripreso a salire e l’incremento di questi mesi è servito quantomeno a compensare i problemi che si sono creati nel commercio internazionale e che hanno finito per stoppare le ambizioni del nostro export (limitandone l’apporto alla risalita del Pil). L’Istat potrà certificarlo solo più in là, qualcosa però si sta muovendo sul piano degli investimenti con una domanda interna di macchinari di sostituzione che si può definire brillante.
I nsomma nessuno, a cominciare da noi, ha interesse a sottovalutare le novità, a misconoscere gli indicatori seppur parziali di segno positivo. Corre però l’obbligo di avvisare che sarebbe autolesionistico accontentarsi di questo ritmo blando di ripresa. E questa valutazione varrebbe, sia chiaro, chiunque fosse l’inquilino di Palazzo Chigi. Abbiamo bisogno non di un rimbalzino, di un decimale in più, bensì di un trend di crescita più robusto che ci porti almeno alla pari con quanto vanno facendo i nostri euro-cugini nelle stesse condizioni di contesto macroeconomico.
Ne abbiamo bisogno in primo luogo per non ritardare all’infinito il processo di convergenza dei nostri indici di finanza pubblica con quelli richiestici dalle autorità comunitarie ma ci occorre anche per tentare di governare gli squilibri di uno sviluppo (relativo) che è fortemente disomogeneo e sta accentuando le distanze nazionali tra generazioni e tra territori. Di conseguenza non c’è tempo da perdere. Proprio il ministro Padoan ha anticipato nei giorni scorsi l’adozione di un pacchetto di provvedimenti di buona finanza che agevoli la crescita delle imprese e rimetta in stretta connessione risparmio delle famiglie ed economia reale. Siccome se ne parla da un po’ è legittimo chiedere di accelerare i tempi della stesura tecnica per portarlo all’approvazione del Consiglio dei ministri nei tempi più brevi possibili. Del resto in questi giorni sta prendendo possesso del suo nuovo incarico il ministro Carlo Calenda: il dicastero che dirige si chiama «dello Sviluppo economico» ma è stato ridotto in condizioni pietose anche a causa di uno spezzatino delle competenze ministeriali a tratti incomprensibile. Così oggi il Mise di fatto si limita a gestire, pur con perizia, le stracitate 150 crisi aziendali. Un Paese che si vanta di ospitare la seconda manifattura europea merita di meglio. Se poi dalle politiche per l’industria passiamo al contributo che può dare il lavoro non si può che sperare che l’innovativo contratto dei metalmeccanici venga firmato nelle prossime settimane, aprendo così un nuovo corso delle relazioni sindacali in Italia.
Maggio è anche il mese di due importanti assise, l’assemblea della Confindustria e quella dedicata alle Considerazioni finali del governatore della Banca d’Italia. Abbiamo piena fiducia che da entrambe le sessioni emerga un richiamo a non rassegnarsi alla crescita debole e avanzino i suggerimenti più meditati di policy da attuare nel breve e nel medio termine. È importante che il tema dello sviluppo resti in testa all’agenda perché c’è il rischio di distrarsi. Si sta correndo il pericolo, da una parte, di rimanere inerti con il naso all’insù ad attendere il verdetto sulla cosiddetta Brexit e, dall’altra, di concentrare tutte le energie politiche del Paese sulla scadenza – il cui valore certo non ignoriamo – del referendum costituzionale.