la Repubblica, 13 maggio 2016
Alla prima vera salita del Giro Nibali sbaglia, cede e dà la colpa agli altri
Un attacco da fagiano, si dicono così i tentativi nati male e finiti come quello di Nibali, che salendo verso l’Aremogna scopre quanto siano dure le salite meno dure. Lo scopre ai -4 km, quando prova un attacco che non ha senso lì e in quel momento, col vento che c’è, con la pendenza che fa il solletico alle gambe. Brutta sensazione dev’essere andarsene e poi vederli tornare in massa, gli altri, bruciare nello scatto tutto quello che hai e vederseli rientare tutti, uno per uno, con la loro freschezza che presto o tardi ti farà male. Quel che manca poi all’arrivo è sofferenza misurabile non in metri o secondi, ma in angoscia. È allora che Dumoulin si accorge, come dirà alla fine, «che Nibali era in difficoltà». È allora che nascono i 21” che l’olandese aggiunge al suo bottino, ora siamo a 47 sul siciliano. Non era lì che si doveva attaccare, anzi non era ieri, Vincenzo.
Seduto sugli scalini del pullman, il capitano dell’Astana riflette. In effetti, di partire lui non ne aveva così tanta voglia. «Me l’hanno detto dall’ammiraglia di attaccare e io l’ho fatto, mi sono fidato troppo, ho sbagliato il momento e quando Dumoulin ha attaccato non avevo più le gambe per stargli dietro». La colpa allora va cercata dentro la station wagon celeste, da dov’è partito l’ordine. «Mi prendo la responsabilità di quel che è successo», accetta il ruolo il ds Martinelli, l’eminenza grigia del team, «abbiamo mandato Fuglsang davanti per fare lavorare gli altri ma stavano tornando sotto di ritmo, piuttosto facilmente, a quel punto ho detto a Vincenzo di andare». L’avevano studiata nell’ultima settimana prima del Giro, questa salita infinitamente semplice, adatta alle lunghe leve di Dumoulin, anche, alla fuga da lontano del fiammingo Wellens, il vincitore di giornata. Era sembrata più dura forse, era sembrata il terreno ideale e invece no, si doveva pazientare, aspettare, seguire, «giocare da attendista, invece abbiamo sbagliato tutto nel finale, dovremo chiarirci», usa toni leggermente scollati dalla realtà di una lieve sconfitta Nibali, lasciando per questo intendere che ci sia dell’altro, qualcosa di più profondo che lo turba, forse la condizione che non arriva, nonostante le rassicurazioni dello staff, certissimo che le tabelle e l’altura daranno i loro frutti più avanti, quando il Giro si deciderà davvero. Ma il Giro si sta decidendo anche adesso.
Nibali al traguardo è ultimo tra i grandi. Davanti, a rosicchiargli secondi, anche Zakarin (24” meglio di lui), Pozzovivo (19”), l’ottimo colombiano Chaves (14”), Uran (10”), Valverde (7”), Landa è l’unico a pari tempo. Una compagnia vasta, per non dire di Fuglsang, Astana anche lui, ma adesso secondo della generale e, come un anno fa al Tour, gregario dai movimenti difficilmente leggibili, sempre un passo troppo in avanti, una minaccia psicologica costante, anche se Martinelli giura su fedeltà e compiti del danese, «il capitano era, è e sarà Vincenzo».
La maglia rosa resta sempre lì, ferma sulle spalle di Dumoulin. Portato in conferenza stampa in una sala di un grande albergo, il ragazzo del Limburgo osserva i pullman degli avversari scendere a valle, mentre il suo aspetta nel grande parcheggio. Sorride. Non sta iniziando a crederci. Lui, forse, ci ha sempre creduto, ma ora è passato dai “quando” («quando avrò la crisi, quando perderò minuti, quando salterò») di inizio Giro ai “se”, non più certo di essere qui in gita. «Mi sto divertendo, anche perché non ho pressione, non ho preparato il Giro, mi sono allenato a casa», non ha fatto altura, semmai il contrario, ha sbuffato sotto il livello del mare per le larghe strade d’Olanda, e per ora basta. «Rispetto alla Vuelta di un anno fa sono cresciuto» ricorda Dumoulin, che perse la corsa spagnola da Aru solo sulla penultima salita dell’intero programma, «ora so gestire meglio la squadra, sono più sicuro di me, so trarre anche il lato divertente della corsa, prima soffrivo gli obblighi dell’avere la maglia, le conferenze stampa, l’essere portato di qua e di là dopo l’arrivo». Pedaleur de charme, dicono i francesi, di fronte a un corridore così, per il modo di stare in bici, per la serenità emanata. La prima settimana l’ha vinta lui.