Il Sole 24 Ore, 13 maggio 2016
Dilma Rousseff è stata sospesa. E ora che succede in Brasile?
L’addio di un presidente donna e l’insediamento di un nuovo governo senza neppure una donna. Dilma Rousseff esce di scena ed entra Michel Temer, 75 anni, il vice presidente che assume ad interim la guida del nuovo Esecutivo. Lei parla di «golpe moderno», di «brutalità». Lui presenta un nuovo governo composto da 21 ministri.
Una giornata di passione, consumata in un Senato riunito in seduta fiume. Dopo quasi 20 ore ha deciso per il sì all’impeachment di Rousseff, 55 voti a favore 22 contrari. Da oggi scattano i 180 giorni utili per la difesa della presidente accusata. A quel punto il Senato rivoterà dopo la contro requisitoria di Rousseff che già ieri ne ha mostrato i tratti salienti: «È un impeachment fraudolento, un vero golpe. In gioco ci sono il rispetto della volontà sovrana dei 54 milioni di elettori che mi hanno votata e il rispetto della democrazia». Sono state queste le prime parole di Rousseff nella conferenza stampa convocata prima di lasciare il palazzo presidenziale di Planalto dopo il voto del Senato.
Il nuovo governo del presidente ad interim Temer sarà composto da 21 ministri (dai 32 di Rousseff) tra i quali non vi è neppure una donna. Non accadeva dal 1985, quando cadde il dittatore Joao Figueredo. Tra i nuovi ministri si individua un profilo comune, liberista. Henrique Meirelles è il ministro delle Finanze del nuovo governo. É stato presidente della Banca centrale, convinto assertore delle politiche monetarie ortodosse, ben considerato dalla comunità finanziaria internazionale. José Serra, ex governatore di San Paolo e due volte candidato alla presidenza, è invece il nuovo ministro degli Esteri. Romero Juca, che successe a Temer nella carica di leader del Pmdb (partito socialista) e acerrimo avversario di Rousseff è il ministro dello Sviluppo.
Rousseff non getta la spugna, lo si capisce dal tenore del suo intervento: «Lotterò con tutti gli strumenti legali di cui dispongo per esercitare il mio mandato fino alla fine, fino al giorno 31 dicembre 2018». E poi ancora: «Non smetterò mai di lottare», ha aggiunto, pochi minuti prima di lasciare il Palacio do Planalto, sede della presidenza. «Guardo indietro e vedo tutto quello che abbiamo fatto. Guardo avanti e vedo tutto quello che dobbiamo ancora fare. E, cosa più importante, guardo me stessa e vedo qualcuno che dispone della forza per difendere i propri diritti». In gioco in questo momento, ha proseguito Rousseff, intervenendo pubblicamente, «non è solo il mio mandato, ma il rispetto per le lotte, per la volontà sovrana del popolo brasiliano. Ciò che è in gioco sono le conquiste degli ultimi 13 anni». «Ciò che è in gioco sono le conquiste raggiunte dalle persone più povere, la protezione dei bambini, i giovani che arrivano all’università, i medici che curano la popolazione, la realizzazione del sogno di una propria casa». Infine: «Posso aver commesso errori, ma mai crimini».
Le accuse contro Rousseff si basano sulla presunta irregolarità di alcune Leggi finanziarie con cui il suo governo avrebbe coperto ampi buchi nel bilancio del 2014. Gli osservatori politici brasiliani confermano che l’impeachment sia stato “forzato” da un sentiment negativo sviluppato dopo l’evidenza del sistema di corruzione e tangenti al cui centro sta Petrobras. Che ha investito anche l’ex presidente Lula. Intanto ci sono già in programma manifestazioni pro-Rousseff; il Paese resta spaccato in due.
Il lato giudiziario della crisi politica brasiliana vede il governo esposto su due fronti, le inchieste per corruzione contro Lula e il processo per impeachment contro la presidente Dilma Rousseff. Sarebbe sbagliato però leggere con le sole lenti del diritto penale il conflitto in atto, che è tutto politico. Il procedimento di impeachment, avviato a fine 2015, ha infatti come presupposto irregolarità formali nel bilancio federale 2014, già commesse in passato da tutti i predecessori di Dilma e mai sanzionate. Chi vota l’avvio vero e proprio e poi giudica il merito sono rispettivamente Camera e Senato, e in entrambi i casi il quorum previsto è di due terzi dei membri: quello che conta quindi non è tanto il merito dei fatti, ma la valutazione politica. Non sorprende perciò che l’opposizione sostenga di muoversi dentro la Costituzione (che formalmente è finora rispettata), mentre il governo gridi al golpe, denunciando l’assenza di basi fattuali.
Del resto, uno dei principali fautori dell’impeachment è il presidente della Camera Eduardo Cunha, imputato per corruzione e oggetto di un processo per la perdita del mandato davanti alla Commissione di etica della Camera. Gli estratti dei conti svizzeri dove riceveva le tangenti sono stati pubblicati nei mesi scorsi su tutti i giornali brasiliani. Mettersi alla testa del fronte anti-Dilma gli ha aperto uno spazio di sopravvivenza politica, che Cunha ha sfruttato con spregiudicata abilità. Buona parte del Parlamento è sotto inchiesta, dei 65 membri della Commissione incaricata dell’istruttoria dell’impeachment, ben 37 sono indagati per reati di varia natura.
Intanto l’inchiesta Lava Jato (che indaga su uno schema di tangenti trasversale a tutti i partiti con epicentro la Petrobras) è andata avanti. Negli ultimi mesi ha rivolto crescenti attenzioni all’ex presidente Lula, accusato di aver ricevuto benefici di varia natura da imprese coinvolte nello scandalo. Se il merito delle accuse (sempre ribattute punto su punto dall’interessato, con tanto di documentazione pubblicata sul suo sito) è lungi dall’essere provato, si può tuttavia affermare che le inchieste sono parse a crescenti strati della società brasiliana a senso unico. Mentre – per fare un esempio – moglie e figlia di Eduardo Cunha (cointestatarie dei conti segreti del congiunto) non sono finora state sfiorate dalle indagini, il mondo intero ha assistito alla condução coercitiva di cui Lula è stato oggetto lo scorso 4 marzo, quando un ingente spiegamento di agenti della Polizia Federale in assetto da guerra lo prelevò all’alba da casa sua per portarlo a deporre, un’azione criticata anche da un membro della Corte Suprema per l’evidente mancanza di presupposti.
In questa situazione – siamo al 16 marzo – la decisione di Dilma di nominare Lula suo ministro ha spaccato ulteriormente un Paese già diviso, benché ciò non avrebbe garantito l’impunità all’ex presidente, ma il trasferimento della competenza a giudicarlo alla Corte Suprema, istanza che - più di ogni altra in Brasile - in anni recenti ha dato prova di grande indipendenza.
Ma il clima ormai è infuocato, e il giorno stesso della nomina accade un fatto sconcertante, le intercettazioni di una conversazione tra Dilma e Lula finiscono quasi in tempo reale al tg della Globo, che ne dà un’interpretazione univoca: unica ragione della nomina è ostruire la giustizia. Il giudice Moro (responsabile dell’inchiesta Lava Jato, ormai un eroe nazionale in Brasile) afferma di averle trasmesse lui stesso, perché «di interesse pubblico». Sulla base di queste intercettazioni il 18 marzo la nomina di Lula viene sospesa da un membro della Corte Suprema. Il 22 marzo però un altro membro dichiara che esse – riguardando la presidente in carica – sono di competenza esclusiva dell’Stf e ne ordina la trasmissione alla Corte. Lo stesso giorno una fuga di notizie rivela l’esistenza di una lista di finanziamenti illeciti da parte della Odebrecht (colosso delle costruzioni) a centinaia di politici di tutti i partiti, mancano però Lula e Dilma (che personalmente continua a non vedersi addebitato alcun reato). Su questa Moro invece decreta inspiegabilmente il segreto istruttorio, prima di declinare la competenza a favore della Corte Suprema.
L’impressione di molti è che impeachment e Lava Jato, che finora marciavano nella stessa direzione (colpevolizzando il solo partito di governo), siano destinate a collidere nei prossimi mesi, quando le inchieste per corruzione dimostreranno che l’intero sistema politico si basa da anni su intrecci proibiti col mondo degli affari. Per questo per molti in Brasile è necessario che tutto cambi, alla svelta, perché tutto resti come prima.