Corriere della Sera, 12 maggio 2016
L’autocompiacimento, il problema del secondo Gomorra
La seconda volta è sempre più difficile della prima, si tratti di libri, di film, di serie tv. Manca l’inconsapevolezza del debutto e il manierismo incombe, specie se il successo è stato grande.
C’è voluta un’intera puntata per carburare e liberarsi dell’autocompiacimento. Dopo la morte di Donna Imma, l’era del clan Savastano, che un tempo regnava incontrastato su Napoli, sembra finita e le forze in campo hanno la possibilità di dire la loro, a cominciare dall’ex luogotenente Ciro. E poi c’è Genny, il figlio di Don Pietro, che in pochi mesi ha dissipato l’impero costruito dal padre in anni di ammazzamenti. Insomma, stiamo assistendo a una faida tra il revenant Don Pietro, che ha smesso di fingersi pazzo, e gli «scissionisti», che da assoldati diventano padroni dei loro quartieri, tra Secondigliano e Scampia. Avendo Stefano Sollima in veste showrunner, Stefano Bises e Leonardo Fasoli in quella di coordinatori editoriali, «Gomorra 2» è stata prodotta da Sky Atlantic, Cattleya e Fandango in associazione con Beta Film (Sky Atlantic, martedì, 21.10).
Il salto temporale con cui si aspre la seconda puntata ci proietta in uno scenario più internazionale: Genny, sopravvissuto all’attacco, fa ora lo spavaldo in Honduras tra i trafficanti di coca e, prima di tornare in Italia, vola in Germania a trovare il padre che sta meditando la grande vendetta. La seduzione di «Gomorra», inutile fingere, sta tutta nella sua capacità di rappresentare il Male.
Che non va solo mostrato, ma interpretato: con la scrittura, con l’asciuttezza dei dialoghi, con la forza narrativa, con il dovere di restituire la complessità del reale. Se la prima serie pareva una corsa spettrale, livida verso la notte di una civiltà esausta, qui le tenebre vogliono riappropriarsi dei due antagonisti (Genny e Ciro) per consegnarli al loro destino scellerato. La sfida è più difficile e incerta. Nel raccontare il Male, ciò che non è straziante diventa superfluo.