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 2016  maggio 12 Giovedì calendario

Il Dna influisce (ma mica tanto) sul rendimento scolastico

I geni entrano in classe. Anche il Dna di un ragazzo, si è scoperto, può influenzare il suo rendimento scolastico. Il più ampio studio del genere, che ha coinvolto un campione di 300mila persone e viene pubblicato oggi su Nature, ha permesso di individuare 74 frammenti del nostro genoma («ma ce ne potrebbero essere migliaia», spiegano gli autori) coinvolti nel successo sui banchi.
Il vantaggio che questi “aiutanti nascosti” possono fornire a uno studente svogliato, in realtà, è tutt’altro che decisivo. In media ognuno dei 74 geni offre un guadagno in termini di performance scolastica equivalente a 5 settimane di studio nel corso della vita. Nemmeno chi è fortunato e dispone del più efficiente, fra questi frammenti di Dna, può crogiolarsi troppo sugli allori. È come se avesse studiato, rispetto ai suoi compagni, nove settimane in più in tutta la vita.
Per “pescare” da un Dna come il nostro, composto da 20mila geni, proprio quelli legati ai buoni voti, i ricercatori guidati dal gruppo americano Social science genetic association consortium e coordinati da Daniel J. Benjamin della University of Southern California si sono affidati alla statistica. Hanno preso la sequenza del Dna di 300mila individui in Europa e negli Stati Uniti e li hanno incrociati con i dati sul livello d’istruzione raggiunto, espresso in anni trascorsi sui banchi (senza tenere conto dei periodi fuori corso). Un’analisi di questo tipo fa emergere quali geni sono associati al successo scolastico, e quanto forte è il legame. Uno studio preliminare, nel 2013, aveva analizzato 100mila persone e aveva individuato tre geni. L’enorme campione di oggi ha permesso di allargare il pool a 74. Messi tutti insieme, questi frammenti di Dna incidono sui risultati scolastici per il 20%. Il restante 80% dipende sempre dai genitori, ma in quanto educatori e non come trasmettitori di materiale genetico, insieme ovviamente alla scuola e all’ambiente in cui i ragazzi sono cresciuti.
«Il contributo di ciascun gene è molto piccolo – commentano gli stessi autori – ma combinati insieme i 74 frammenti di Dna hanno un impatto significativo». La componente ereditaria è in grado di spiegare il 3,2% delle differenze scolastiche fra una persona e l’altra. «Caratteri come l’altezza – spiega con un esempio Francesco Cucca, ricercatore del Cnr e dell’università di Sassari – sono invece molto ereditabili. L’effetto dei geni sulla statura arriva all’80%, mentre l’ambiente e l’alimentazione contano per il restante 20%». Una percentuale speculare rispetto a quella dei geni della laurea.
Grande o no, l’effetto comunque esiste. Il dado è stato lanciato, altri geni verranno individuati in futuro e l’idea di legare il Dna a un carattere non medico, ma squisitamente sociale come il livello d’istruzione ha subito iniziato a creare controversia (come era avvenuto di recente con i tentativi di trovare una correlazione fra i geni e l’intelligenza). «Finora abbiamo sempre messo in contrapposizione geni e ambiente», spiega Giuseppe Novelli, genetista e rettore dell’università di Tor Vergata a Roma. «Ma geni e ambiente si influenzano a vicenda. Non esiste alcuna dicotomia. Come dice Craig Venter, il Dna fornisce lo spartito, ma è poi l’orchestra a suonare la musica. Un individuo può avere i geni che lo predispongono al diabete, ma non si ammalerà mai se mangia correttamente». Dna o no, sostiene una scuola di pensiero, per andare bene a scuola bisogna sgobbare. Ma c’è anche chi sostiene l’opposto: che finora abbiamo scoperto solo la punta di un iceberg, che il ruolo dei geni sia invece molto più forte di quanto non sospettiamo e di quanto gli stessi dati pubblicati su Nature non facciano intuire. Sostiene per esempio Robert Plomin, professore di Genetica comportamentale al King’s College di Londra: «Questi studi stanno raggiungendo una soglia critica. Presto il Dna sarà usato per personalizzare l’educazione, abbandonando l’idea di un curriculum uguale per tutti. Le implicazioni e le applicazioni di questa rivoluzione vanno discusse ora, perché il cambiamento è in corso. Alcune derive potrebbero essere preoccupanti, ma credo che per i bambini potrebbe essere un vantaggio capire in anticipo i loro punti di forza e debolezze».
Plomin nel 2013 ha condotto uno studio su geni e voti a scuola con risultati molto più netti (e dibattuti) rispetto a quelli di oggi. Su Plos One il suo gruppo stabilì che per avere successo all’esame Gcse (quello che tutti i ragazzi inglesi affrontano a 16 anni) un buon insegnante contribuisce per il 29%. Un buon patrimonio genetico invece per il 58%. L’ereditarietà, aveva osservato il ricercatore, si farebbe sentire di più per le materie scientifiche che per quelle umanistiche e in modo più incisivo nei maschi che nelle femmine. Le sue scoperte spiegherebbero forse la storia di Sir Paul Nurse, genetista inglese vincitore del Nobel nel 2001, che durante un intervento pubblico a “The Moth” raccontò: «Perché sono così diverso? Perché i miei fratelli hanno abbandonato la scuola a 15 anni e io ho vinto un Nobel?», per poi svelare di essere figlio della sorella e di un padre sconosciuto. E di non sapere nemmeno chi erano i due nonni.
Fra i 300mila individui studiati in 15 Paesi ce ne sono anche quasi 10mila italiani. I loro dati provengono dal database del Cnr sui geni della popolazione sarda. «Studi così grandi si basano sulla collaborazione di centinaia di colleghi», spiega Mario Pirastu, ricercatore del Cnr e responsabile scientifico del Parco genetico dell’Ogliastra. «Il consorzio americano ha lanciato un appello chiedendo la collaborazione dei vari colleghi nel mondo. Noi abbiamo messo volentieri a loro disposizione il nostro database, che contiene i dati sul Dna e quelli sulla scolarizzazione, perché crediamo che sia utile alla scienza».