la Repubblica, 12 maggio 2016
A Benevento quindici ragazzi riescono a fare una Silicon Sannio, senza nemmeno avere Internet veloce
Benevento Quindici ragazzi disegnano mondi. In principio è la griglia, orientata nel monitor da una tavoletta grafica, poi la matematica diventa superficie e movimento. «E se disegni sempre cerchi, non vedi più le altre figure». Li chiamano videogiochi ma sono una cosa tremendamente seria: fantasia, algebra, programmazione, visione, matite e gomme, pixel e carta, tutto in accento campano perché i quindici creatori di mondi virtuali vengono quasi tutti da qui. Da Benevento, la nostra Silicon Sannio.
C’erano tre studenti di ingegneria che ingegneri non divennero mai. Giovanni, Carmine, Lorenzo. Quasi vent’anni fa inventarono Claudia, un robot che nello schermo rifletteva luce sul suo corpo d’argento, muovendosi come mai s’era visto, e il più grande produttore mondiale di work-station se ne accorse, li notò, li ingaggiò. I tre ragazzi risposero okay, faremo cose che non esistono e gli americani ci credettero. Anche i francesi ci credettero, due milioni di euro da investire per far nascere SpinVector. Tutti a Parigi. Primo videogioco prodotto, un milione di copie vendute.
Da questo momento poteva svilupparsi una trama planetaria, i nostri cervelli in fuga, i talenti incompresi, lontananza e nostalgia. Il solito festival delle occasioni perdute e delle opportunità trovate altrove.
Invece Giovanni (Caturano, 44 anni, nel frattempo amministratore delegato), Carmine (della Sala, 42, nel frattempo direttore tecnico) e Lorenzo (Canzanella, 40, nel frattempo direttore creativo) mollano i francesi che pretenderebbero solo repliche dei primi successi e tornano in Italia, nella loro Benevento. Dove, mantenendo la promessa, creano cose mai viste.
Qui ci sono una camera delle meraviglie, una panca, uno schermo curvo in fibre d’argento, occhiali 3D e un visore con le antenne. Sedersi e guardare. In rapida successione, un volo tra gli anelli di Saturno, l’eruzione del Vesuvio, un centurione che se ti sposti si gira e ti fissa, astronavi e dinosauri, farfalle e vasi antichi. Ma anche una specie di binocolo con due telecamere puntate su un luogo vero, per esempio un teatro romano, ma in grado di aggiungere la realtà virtuale e ricostruire quello che non c’è. E chissà che non sia un talento molto italiano, molto meridionale, dover immaginare tantissimo per poi creare qualcosa.
«I videogiochi sono cultura, sono apprendimento perché creano problemi da risolvere. E poi divertono. Soltanto la nostra cultura li demonizza perché poco seri». Giovanni Caturano è il capo di quelli che lavorano giocando. «Tornare in Campania invece che andare a Londra o a Berlino significa orgoglio, ma anche problemi. Mancano le infrastrutture, è difficile persino arrivare in treno da Roma e i nostri clienti li vogliamo qui, devono toccare con mano quello che non si tocca». Il paradosso è che Silicon Sannio ha una connettività preistorica: «La fibra esiste da appena un mese ed è comunque lenta. Questa terra non può campare di eccellenze, quelle ci sono sempre state. Deve alzare il livello medio».
Il mercato dei videogiochi muove in Italia 900 milioni di euro, e 100 miliardi nel mondo. Su dieci app a pagamento, nove servono per giocare. E il giocatore ha almeno trent’anni, è maschio o femmina in identica misura. «È un adulto, non il quindicenne foruncoloso che immaginiamo sempre chiuso nella sua stanza».
Tra i committenti di SpinVector c’è anche l’insospettabile Treccani, quella dell’enciclopedia, che ha chiesto un videogame su Artusi, il celebre gastronomo. Chi resta di carta, muore.
«Forse in pochi sanno che in Campania abbiamo l’assessore all’Innovazione, una donna, si chiama Valeria Fascione. E questo conta perché bisogna cambiare la dialettica con gli enti pubblici, non sempre i migliori clienti possibili». Valentina De Luca, 37 anni, è responsabile sviluppo di SpinVector. «Abbiamo crediti che risalgono al 2011, poi per forza si lavora con i privati, meglio ancora se internazionali. Il problema non sono i nostri cervelli in fuga, ma gli stranieri che qui non vengono. Un tedesco va in Francia, non in Italia. I cervelli oggi non scappano ma si muovono. E se non riesci ad attrarli sei fuori dal gioco».
Si chiama Pacevecchia la zona alta di Benevento dove si disegnano mondi. Un nome suggestivo, evocativo, dal sapore di perduto, l’esatto contrario di quanto serve adesso: riprendere, ricreare dal caos. Qui si spariglia l’immagine di una città ferita ma non distrutta dall’alluvione dell’anno scorso, qui si aggiunge un nome di spessore ormai internazionale ai classici, il liquore Strega (è pure tornato il premio, dopo lungo girovagare romano), la pasta Rummo, le viti dell’Aglianico e della Falanghina, le aziende di semi e mangimi. Ma non basta. «Il nuovo sindaco, chiunque sarà, punti sul digitale nell’interesse di tutti, specialmente dei giovani che possono creare attività da soli senza grossi investimenti, ma non senza internet veloce».
Già cinque studenti dell’Università di Benevento hanno scritto una tesi su Spin-Vector, tutti con lode, e qualcuno un giorno potrebbe pure lavorare qui dentro, nel ticchettìo di tastiere che sono il basso continuo delle idee. Facendo molto silenzio si potrebbe addirittura sentire la punta di una matita che gratta la carta, e i denti di Pierluigi che masticano una Bic mentre lui cerca il volto di un nuovo personaggio. Pierluigi Vessichelli, “character designer” e animatore. Quello che disegna sempre. «A forza di inseguire un volto, uno sguardo, una caratteristica pensata a tavolino con in mente un preciso obiettivo creativo, la soluzione arriva». Anche Pierluigi ha un bell’accento campano. Arriva dal liceo artistico, se sei bravo puoi fare strada senza una collana di titoli accademici, pur non improvvisando nemmeno una virgola.
«Gli inglesi hanno calcolato che un videogioco migliora le prestazioni manuali e mentali dei chirurghi e pure io gioco, sparo al computer, mi diverto e aumento la neuro plasticità del mio cervello» dice Giovanni, mentre Lorenzo muove sullo schermo una colonna che si fa curva e grigia, poi a scacchi rossi e bianchi, e il capitello è di una perfezione imbarazzante. Qui si tratterebbe solo di capire cosa è finto e cos’è vero, cosa ha un corpo e cos’è questo corpo, e dove si colloca il confine mobile tra i mondi. Ammesso che il confine esista e sia più concreto di quello tracciato alle porte della città, dove pochi immaginerebbero che americani e giapponesi abbiano puntato gli occhi, anche copiando, «perché nel nostro campo è difficilissimo proteggere il diritto d’autore: non resta che essere continuamente più bravi degli altri». E se poi si rischia di perdere la bussola della realtà, basta guardare il cesto appoggiato su una scrivania. C’è dentro un gatto bianco, vero, vivo.