Corriere della Sera, 11 maggio 2016
Intervista a Wilmots, c.t. della squadra di calcio del Belgio, che agli Europei affronterà subito l’Italia: «Conta lo spirito della squadra. Non voglio nessun telefono a tavola»
Marc Wilmots c.t. del Belgio, tra un mese inizia l’Europeo e il 13 giugno affrontate subito l’Italia. Cosa ha pensato al sorteggio? «Inutile nasconderlo: gli italiani volevano evitare i belgi e viceversa. Può finire in qualunque modo e puoi trovarti con 1 punto dopo 2 partite: il calendario è complicato».
Il Belgio è in ascesa. L’Italia può farvi paura?
«Rispetto molto il calcio italiano, sia a livello fisico sia tattico. Gli azzurri sono abituati ai tornei, a vincerli e a gestirli, noi non ancora. Ma abbiamo qualità innegabili».
Sacchi dice che il peso della tradizione si fa sentire nei grandi tornei. È arrivato il momento di iniziare una tradizione belga?
«Creare una tradizione per noi vuol dire qualificarsi regolarmente. Adesso ci siamo e l’asticella è molto in alto. Il gruppo è molto ambizioso, tanto che adesso sto tirando un po’ il freno a mano. Ma abbiamo scommesso sui giovani e la scommessa sta pagando».
Come fate ad avere tanti ragazzi forti?
«Il Belgio è cambiato: i club danno spazio ai giovani di 16/17 anni che possono già battagliare in prima serie, in Champions e crescere ancora. E anch’io in Nazionale prendo dei rischi con i ragazzi, amo lasciarli esprimere, dargli delle possibilità».
Che fine ha fatto la bandiera che sua figlia le fece trovare in casa dopo la qualificazione ai Mondiali?
«È in camera della piccola. Per smaltire la tensione di quella notte ero tornato a casa tardi e con un po’ di alcool nel sangue. Mia figlia aveva preparato la colazione lasciando il bandierone sul tavolo. L’ho trovato un gesto formidabile».
Perché?
«Perché abbiamo cercato di costruire una squadra per la popolazione, una squadra che si spinga in avanti, che sia unita nei momenti difficili. E il fatto che dei bambini si identifichino in questa squadra mi tocca nel profondo, specie su temi come la multiculturalità. C’è stata una vera riunificazione culturale».
Come ci siete arrivati?
«È stato progressivo. Ci sono stati anche tanti errori. Grazie a mia moglie, esperta in temi giuridici, ho firmato un contratto che mi dava ampi poteri per scegliere tutto, dallo staff alla logistica. Ho assunto delle persone, ho fatto delle scelte».
Il rapporto con sua moglie, che le ha fatto anche da procuratrice, è inusuale nel calcio, non trova?
«Abbiamo fatto tutto insieme, dall’università in poi. So che tutti pensano al nostro amore come una cosa strana e un po’ ridicola, ma lavorare assieme a lei è un’ottima cosa».
Da c.t. come ha inciso sulla squadra?
«La strategia era quella di avere una squadra per metà offensiva e per metà difensiva. L’esplosione di De Bruyne, Courtois, Benteke, Witsel, non è stata casuale. Anche qui ho fatto delle scelte, perché tutti sapessero il loro ruolo».
Un esempio pratico?
«Il tema è lo spirito della squadra: per questo non voglio nessun telefono a tavola. Come faccio a conoscerti se non parlo con te, se non so come vivi? E in allenamento non ci si diverte, si lavora duro».
Colpisce anche la componente multirazziale belga.
«Ci sono ragazzi di Bruxelles, di Liegi, fiamminghi, marocchini, congolesi. Ma sono tutti belgi. Io non amo i naturalizzati che scelgono la Nazionale a 20 anni: quello è commercio e serve a mascherare delle debolezze».
Dopo gli attentati di Bruxelles la vostra Nazionale è diventata un simbolo?
«Non c’entriamo con gli attentanti, non possiamo mescolare certe cose con lo sport. Ma di sicuro non siamo il piccolo Belgio che ha paura. E vogliamo rappresentare la nazione. Ed essere per 5/6 anni tra i primi dieci al mondo».
Il 22 marzo eravate in ritiro. Che giorni avete vissuto?
«Eravamo a tre chilometri da Zaventem, gli attentati sono stati uno choc. Io sono andato all’aeroporto, ho visto. Il giorno dopo ci siamo allenati. La vita continua, a New York hanno continuato. È il solo modo di andare avanti. Abbiamo giocato col Portogallo, abbiamo perso, ma non è grave. L’importante era ripartire».
All’Europeo ha dei timori per la sicurezza?
«Ho fatto molti tornei: ho paura per il pubblico, non per noi che siamo protettissimi».
Quando è soddisfatto della sua squadra?
«Il pubblico deve venire allo stadio e divertirsi. Voglio prendere in mano il gioco, voglio osare. Ma non in modo scriteriato: con una base tattica ben presente. E solida».
Pensa che Conte giochi un calcio difensivo?
«Il suo gioco è intelligente. Il calcio è vincere con le armi a tua disposizione. Lui parte dalle solide basi difensive della Juve e da giocatori rapidi come Insigne. E deve fare i conti con assenze pesanti, come Marchisio e Verratti».
Quali sono i suoi giocatori italiani preferiti?
«Mi piace proprio Verratti che ho visto evolversi a Parigi. Apprezzo come sa regolare il gioco a centrocampo. Per il passato, dico Paolo Rossi, che ai Mondiali venne fuori dal nulla: una grande storia».
Conte va al Chelsea. Capisce la sua scelta?
«Sì, lo capisco. Lavorare con una Nazionale è difficile: hai pochissimo tempo e pochi uomini. Sei giudicato sul tuo lavoro di allenatore ma devi fare i conti con molte variabili e situazioni, non solo sul campo. È un lavoro a parte».
L’Europeo chi lo vince?
«Se indovinassi sarei un genio! Noi siamo gli outsider».
La sorpresa?
«Mi associo a Del Bosque e dico Portogallo».
L’assenza dell’Olanda è uno stimolo in più per voi?
«Me ne frego di queste contrapposizioni. Certo, non capisco perché le tv fiamminghe abbiano commentatori olandesi. È come se dovessero dimostrare qualcosa. Io rispetto il calcio olandese, ma non lo copio: non ho nulla a che vedere».
Quanto è importante il romanista Nainggolan per voi?
«Ha una straordinaria capacità di recuperare la palla e rimetterla in gioco in velocità e in verticale. Sa fare gol ed è ottimo nei contrasti. Detto questo, nel centrocampo titolare ho quattro giocatori per due posti».
Mertens nel Napoli è una riserva. La sorprende?
«Dries può entrare e uccidere la partita. So bene cosa può fare e cosa ha fatto da noi, sia partendo dal primo minuto sia dalla panchina».
Lei è stato anche senatore. Un’esperienza positiva?
«Ho lavorato per un programma di sport nelle scuole. Ho contributo ad approvare la legge sul divieto di fumo nei locali pubblici. È stato complicato, ma sono contento dell’esperienza».
Complicato perché?
«Nel calcio c’è un terreno di gioco e puoi segnare, in politica c’è il terreno di gioco ma non puoi lasciare il segno: non potevo fare quello che volevo».
Ha altre passioni oltre al calcio, la politica e i suoi tre figli?
«Il golf, a cui dedico poco tempo. E il restauro delle case, che poi rivendo e di cui mi occupo personalmente, senza farmi aiutare dagli architetti. Mi piace mescolare il vecchio e il nuovo ed esaltare i pregi. In fondo è quello che cerco di fare sempre nella mia squadra».