La Stampa, 11 maggio 2016
Trump ha bisogno di soldi
La favola di Donald Trump che si autofinanzia la corsa alla Casa Bianca è finita. Come tutti i comuni mortali, anche lui avrà bisogno dei donatori per raccogliere il miliardo e mezzo di dollari che stima necessario a vincere. Infatti ha già nominato un responsabile del fund raising, Steven Mnuchin, che guarda caso viene dal gigante di Wall Street Goldman Sachs.
I problemi da risolvere però sono tre: primo, fare in tempo a recuperare tutti i soldi necessari, partendo così in ritardo; secondo, sanare le divisioni nel Partito repubblicano, per ottenere l’appoggio di tutti i grandi donatori; terzo, soddisfare le richieste di questi donatori senza deludere gli elettori, che finora avevano votato Donald perché si finanziava da solo, e quindi non era corruttibile o condizionabile dalla macchina dei contributi elettorali gestita dall’establishment.
Uno degli argomenti più forti usati da Trump all’inizio delle primarie era che, essendo miliardario, avrebbe pagato la campagna con i propri soldi. Quindi poteva promettere quello che voleva, e poi mantenerlo, perché non avrebbe dovuto rispondere a chi staccava gli assegni per lui. Da allora in poi ha speso circa 40 milioni di dollari, cioè molto meno dei suoi avversari, perché ha costruito una piccola squadra, e ha avuto la fortuna dei media che in pratica gli hanno fatto pubblicità gratuita. Siccome con le sue uscite faceva salire l’audience, le televisioni trasmettevano in diretta i suoi comizi e lo intervistavano in continuazione, quasi senza contraddittorio. Secondo alcune stime, in questa maniera gli hanno regalato l’equivalente di circa 2 miliardi di dollari in pubblicità. Ora però questa fase è finita: primo, perché la campagna presidenziale nazionale richiederà almeno un miliardo per essere condotta, non solo con gli spot; secondo, perché ora che è il candidato ufficiale, e la linea scelta dalle televisioni durante le primarie è stata duramente criticata, i network saranno costretti a smettere di promuoverlo gratis. Terzo – ma questa è solo un’illazione – perché Trump non sarebbe così liquido come dice, e quindi non avrebbe comunque un miliardo e mezzo di dollari da investire nella corsa alla Casa Bianca. Quindi ha nominato Steven Mnuchin come capo del fund raising, e sta discutendo col Partito repubblicano un accordo per usare le sue strutture di finanziamento. Nel frattempo ha già accettato di tenere un evento a pagamento in New Jersey a metà maggio, il cui ricavato andrà al suo sostenitore della prima ora e capo del «transition team» Chris Christie, in modo da aiutare il governatore a ripagare i debiti della propria fallimentare campagna presidenziale.
Trump avrà poco tempo per costruire la sua macchina, e quindi avrà bisogno dell’aiuto dell’establishment, ma ha diviso il partito e quindi non tutti sono disposti ad aiutarlo. Alcuni miliardari, tipo il magnate dei casinò Sheldon Adelson e quello dei media Stanley Hubbard, hanno segnalato la disponibilità a sostenerlo. Altri però, come i potenti fratelli petrolieri David e Charles Koch, o il finanziatore di Marco Rubio Paul Singer, sono freddi. Anche American Crossroads, il gruppo guidato dall’ex guru di Bush Karl Rove, chiede mutamenti di linea e di atteggiamento prima di aprire il portafoglio. Ma se Donald accetterà il baratto, e in cambio dei soldi abbasserà i toni o aggiusterà i programmi, gli elettori che lo hanno spinto durante le primarie resteranno con lui fino a novembre?