La Stampa, 11 maggio 2016
Le facce di carta pesta del barbiere di Torino
Carta sei nato e (scultura di) carta ritornerai. Una scultura che delle sembianze della cellulosa non ha proprio più nulla. Piuttosto, sembra un bronzo di Giacometti o un’opera primitiva del Paleolitico Superiore. La butti a terra e non s’ammacca, non si stropiccia, non fa una piega.
L’artefice è Giuseppe Iacopetta, di professione parrucchiere da uomo, per arte lavoratore di carta.
Barbiere di 68 anni di Torino, che fa i capelli ai clienti da quando ne aveva 12. Abituato a maneggiare facce dal mattino alla sera, in pausa pranzo molla il pennello e le forbici, smette di modellare barbe e plasma pagine di giornale. Fino a trasfigurarle e a dargli un’anima, una forma antropomorfa, un volto. Visi stilizzati o scarni e scavati, di quella forgia e di «quell’espressività dei volti meridionali come quelli del mio paese, Gioiosa Ionica (Reggio Calabria), quelli dei vecchietti che avevo tra le mani quando facevo l’apprendista, da ragazzetto. Dall’età di 24 anni lavoro la materia prima, la creta all’inizio, poi subito la carta – racconta – e mi sgorgano da sole le stesse forme, quelle faccine degli anziani che mi facevano da cavia».
Il barbiere Iacopetta – parrucchiere dalle 9 alle 12,30 e dalle 14,30 fino a chiusura negozio, in uno dei quartieri più signorili di Torino, Crocetta – è artista dalle 12,30 alle 14,30 tutti i giorni, «meno quelli di festa – dice – perché lì non ho creatività, l’ispirazione mi viene dal modellare, prima le teste, poi la carta. Divide la sua esistenza in due. Ma in qualche modo, prima e dopo, fa la stessa cosa: «Ho frequentato l’Accademia senza andarci. Tutta la mia carriera è stata un’accademia di Belle Arti», scherza. È quello che hanno detto di lui alcuni critici, definendo la sua arte naïf. E naïf, d’altra parte erano i Rousseau e i Ligabue. Il barbiere Giuseppe, insomma, non ha «fatto le scuole alte», ma è stato folgorato da un primo incontro, all’inizio degli Anni 70, quando ha conosciuto uno scultore e maestro, Aldo Greco.
Con la scusa di comprare un quadro, si è intrufolato nel suo atelier. «Quando sono uscito mi son detto, voglio vedere cosa posso fare io». Ha realizzato una prima serie di «testine». Il maestro è tornato a tagliarsi i capelli «e ha esclamato “ma qui il vero artista è lei”». Per gelosia, non l’ha più salutato per 10 anni. Il signor Giuseppe ha iniziato con la creta poi, dicevamo, si è buttato sulla carta. Da 40 anni lavora solo quella. Raccoglie montagne di giornali, separa foglio a foglio, li macera nell’acqua, li pesta con il metodo casalingo della racchetta da sci, li impasta con la colla da parati «che non resta appiccicosa e la posso plasmare», poi ci aggiunge il vinavil. E tutti noi, a questo punto, facciamo un tuffo nel passato, a quelle pratiche infantili di gioco e creatività con la cartapesta, che ci insegnavano le maestre all’asilo.
Iacopetta crea le statue, forgia forme. Poi le ricopre di nuovo col vinavil e le sottopone a quella che lui chiama una «bronzatura», scurendole con la fiamma ossidrica. Risultato, le sculture che riecheggiano le forme sbozzate di Alberto Giacometti, sembrano bronzi. Ma la carta nelle sue mani diventa anche quadro, che ricorda le colature di colore di Pollock o paesaggi impressionistici. «Mi hanno definito un primitivista e così voglio rimanere». Per questo, concede le sue Veneri prospere, nate dalla carta plasmata attorno a vere damigiane, o le facce africane create con un’armatura di bottiglie vuote di candeggina, o ancora le sue sculture lunghe, a mostre collettive qua e là per l’Italia, ma non smania. L’arte di questo artista senza riferimenti culturali o di corrente vuole rimanere spontanea. «Voglio restare un istintivo», dice. «Io una scultura la vedo subito come un’idea, in testa. L’intuito mi suggerisce il profilo. Allora ho l’esigenza di bloccarla nella materia, le mani fanno tutto loro. Sono loro che hanno frequentato la scuola, a forza di fare barbe e capelli».