la Repubblica, 11 maggio 2016
I desideri di Wilde s’intrecciano con la creatività di Pacino
Nel 2006 Al Pacino aveva messo in scena a teatro un suo allestimento della Salomé di Oscar Wilde, con Jessica Chastain nel ruolo della principessa figlia di Erodiade e se stesso in quello del Re Erode. Al centro della vicenda, un folle e perverso intreccio di desideri. Quello del Re per la giovane principessa, e quello della stessa Salomé per Giovanni Battista. E da quell’intreccio l’attore e regista statunitense ha realizzato un film/documentario, Wilde Salomé, già presentato alla Mostra del cinema di Venezia nel 2011. Analogamente al suo Riccardo III – Un uomo, un re, Pacino alterna le riprese della produzione teatrale con le sue riflessioni sulla tragedia e, in questo caso, su Oscar Wilde: la vita del drammaturgo, la sua omosessualità, il suo rapporto masochistico con Lord Bosie. Pacino viaggia tra Londra, Dublino e la Toscana, oltre che nella sua New York cercando di ripercorrere il percorso intellettuale e personale del drammaturgo.
Dieci anni dopo quella prima rappresentazione teatrale finalmente il film di Al Pacino è nelle sale italiane, da domani, in una nuova versione affidata al montatore italiano Roberto Silvi insieme a David Leona. Ne abbiamo parlato con Pacino, instancabile a 76 anni, a Los Angeles.
Signor Pacino, “Wilde Salomé” esce in Italia, dopo il suo passaggio veneziano cinque anni fa. Che significato ha per lei questa uscita italiana?
«Mi aveva inorgoglito molto che Salomé avesse debuttato in prima assoluta a Venezia, e che fosse stato così ben accolto. Tutti i miei film, come regista intendo, fanno perno sulla necessità di raccontare l’evoluzione del processo creativo».
Il film è passato per diverse fasi editoriali: cosa c’è di diverso e speciale in quest’ultima versione?
«È vero, abbiamo fatto varie versioni nel corso degli anni. Dopo una proiezione a Londra un paio d’anni fa, il mio produttore Barry Navidi ed io abbiamo deciso di tagliare sei minuti. Il film ne ha guadagnato in fluidità. Funziona molto meglio».
Come descriverebbe “Wilde Salomé”?
«È una sorta di mémoire, un documentario sperimentale. Il film mescola la tragedia con la vita di Oscar Wilde, la vita della piece con la mia mentre cerco di girarlo.
Salomé è un lavoro imperfetto ma pieno di ispirazione. La sfida era riuscire a tradurlo in modo che il pubblico sentisse quella stessa ispirazione. Voglio trasmettere la passione che provo per questo dramma da quando l’ho visto in teatro la prima volta, più di 15 anni fa in Inghilterra. Quando iniziai questo progetto non avevo un piano, avevo una passione, e non sapevo esattamente cosa farci con tutta questa passione. Oscar Wilde è un genio, ma è anche un uomo che si è emarginato, dal resto del mondo e dal suo tempo, messo a dura prova dalla vita. Perché mai mi sono andato a identificare con questo autore non lo so, ma l’ho fatto. Qualcosa mi ha fatto riconoscere in lui, forse i rischi che lui stesso ha preso con il suo lavoro, per buttarsi nell’ignoto, un po’ come ho fatto io con questo film. C’erano momenti, durante l’anno e mezzo in cui abbiamo girato, in cui ho pensato di diventare matto: filmavo la messa in scena dell’opera e ogni cosa che succedeva nella mia vita, come se tutto fosse collegato».
È anche una specie di “travelogue”: alla ricerca del Wilde perduto lei spazia per due continenti.
«Esatto, un tragitto alla ricerca del personaggio ma anche dello scrittore. E di me stesso. Una vera auto-analisi. Gli spettatori vedranno una parte di me che non conoscono e che ho cercato di mostrare nel modo più onesto possibile. È chiaro che Oscar Wilde continua ad affascinarmi, è ancora qui, nella mia mente».
Sappiamo che lei sta preparando un film tratto da “Re Lear” di Shakespeare: perché?
«Shakespeare ci tocca nel profondo, perché parla di emozioni e sentimenti in maniera grandiosa. Amo Shakespeare, e le sue opere sono perfette per gli attori perché sono scritte da uno che era un attore egli stesso. Solo un attore può capire gli attori. Ho recitato in molte produzioni teatrali dai lavori di Shakespeare, come Riccardo III, da cui ho tratto un film. Ho interpretato Shylock nel Mercante di Venezia, prima come film e poi come messa in scena a Broadway. Re Lear è il ruolo massimo per un attore. Mi sento pronto a recitarlo solo adesso».
Il teatro è per lei più importante del cinema?
«Ho sognato di recitare in teatro da quando vidi Il gabbiano di Cechov a New York, da ragazzino, avrò avuto 14 anni. Il teatro è la mia vita. Gli attori, la mia famiglia. Ci sentiamo uniti perché quando recitiamo è come se la nostra vita dipendesse da questo. Quando la recita finisce ci sentiamo persi. Amo il cinema, ma solo a teatro mi sento davvero a casa. Immagini un funambolo sulla sua corda tesa per aria: per rimanere in piedi deve usare tutti i suoi muscoli e l’adrenalina. Nel cinema cammina sulla corda, ma la corda è stesa per terra, mi spiego? Se cade, si rialza e ricomincia. A teatro non hai una seconda opportunità».
Ha cambiato i suoi criteri di scelta di ruoli nel corso degli anni? E come sceglie adesso i progetti?
«Cerco sempre un collegamento con il ruolo specifico che mi propongono. Cerco sempre un legame, non importa di cosa tratti la storia. E trovarlo è una vera e propria ricerca. È un tragitto. Un’altra foresta che devi attraversare. Non sai dove i sentieri siano, o dove portino. Ma la cosa più importante per un attore è trovare il modo di sviluppare un legame col suo personaggio».