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 2016  maggio 11 Mercoledì calendario

Reportage da Mosul, dove gli italiani difendono la diga di Saddam


Il getto d’acqua che zampilla dalla bocca di sfogo sarà alto una settantina di metri. Sono 150 metri cubi al secondo, altri 350 sono imbrigliati nelle turbine della centrale elettrica lì a pochi passi. Dall’altro lato dello sbarramento, il Tigri prigioniero è blu cobalto, una dozzina di gabbiani dondola sull’acqua trasparente. I militari curdi, seduti fra le stoppie gialle, assicurano: ci sono anche i pesci. Benvenuti alla ex diga Saddam, 11 miliardi di metri cubi d’acqua rinchiusi dal raís fra queste colline contro il parere degli esperti, una struttura diventata poi argomento di strategia più che fonte di energia.
Sarà a poca distanza dalle paratie polverose che sorgerà il campo base per 450-500 soldati italiani, chiamati a sorvegliare le pareti di cemento e lo specchio d’acqua. Sui sentieri accanto alla diga, militari senza uniforme, con la barba lunga, gli occhiali scuri e la camicia larga per nascondere la pistola, vanno e vengono per valutare rischi e necessità della missione. Il campo base sarà un villaggio di tende militari, forse più avanti di strutture prefabbricate, con i consueti sbarramenti, i Lince parcheggiati in ordine dietro i ripari di cemento a forma di T rovesciata, le guardie tutto intorno. Ci sarà lo spazio per una batteria di mortai Thompson da 120 mm e sulla testa il ronzio dei piccoli droni Raven, indispensabili per sorvegliare dall’alto la sicurezza del campo anche di notte. La linea del fronte con gli integralisti del sedicente Stato islamico è dietro le colline, ad appena venti chilometri. L’Is è in difficoltà, ma sempre in grado di creare problemi, magari anche lanciando verso il nostro contingente un missile recuperato fra quelli abbandonati dai governativi due anni fa, durante la presa di Mosul. E l’incubo vero è la possibilità dell’infiltrazione di qualche integralista, visto che la cesenate Trevi, che deve eseguire i lavori di manutenzione straordinaria della diga, dovrà fare affidamento sul personale locale. I curdi sono legatissimi, e la loro sembra una società difficilmente penetrabile dagli jihadisti sunniti. Ma non si può scartare la minaccia: «Basta che un camion di ghiaia sia controllato in maniera frettolosa, per arrampicarsi sulle strade bianche e poi trasformarsi in autobomba», dice un ufficiale. E lo stesso vale per quegli operai con la testa avvolta “alla curda”, in un modo tutto particolare: la Trevi ne dovrà impiegare settecento, accanto ai suoi settanta tecnici, e le verifiche dell’identità dovranno essere continue. Perché il contingente dei militari italiani diventerà un obiettivo ambito per gli attacchi dello Stato islamico, probabilmente più della stessa diga.
Fra i curdi resta un forte scetticismo per la necessità dell’intervento. «Questo allarmismo per la diga non è giustificato», dice Riyadh al Naemi, manager dell’impianto: «Non è vero che ci sia pericolo di un cedimento, è tutta propaganda». E ancora meno sensato è il timore che lo sbarramento possa crollare da un momento all’altro, visto che il livello dell’acqua è molto basso. Al ministro Roberta Pinotti, arrivata in elicottero per una visita rapidissima, un tecnico della Difesa spiega che i problemi della diga non sono facilmente individuabili dall’esterno: in sostanza l’impianto è stato costruito su una base di roccia gessosa, che con gli anni cede. Lo staff della diga, che è rimasto al suo posto anche durante l’invasione americana, si preoccupa regolarmente di fare “iniezioni” di cemento che tappano le falle. Poi ci sono paratie che non funzionano, e uno dei due tunnel di sfogo che è stato giudicato inagibile. Ma se la reale entità dei danni deve ancora essere valutata dagli esperti della Trevi, l’azienda di Cesena incaricata del restauro, gli iracheni sogghignano di fronte allo scenario catastrofista disegnato dai reparti Genio dell’esercito Usa. L’idea di una specie di Vajont dietro l’angolo, con un milione di morti e il Tigri fuori controllo che cancella persino l’aeroporto di Bagdad, agli esperti locali appare una sciocchezza.
E l’insistenza degli Stati Uniti, che hanno premuto con forza perché l’Italia si assumesse il compito, suona sospetta. Appare curioso anche il fatto che gli americani, sussurra una fonte molto informata, vogliano conservare per loro la direzione dei lavori. Insomma, è difficile sfuggire all’impressione che Ashton Carter, titolare del Pentagono, tenga alla presenza delle truppe di terra italiane qui vicino al fronte almeno quanto all’intervento tecnico tout court. L’invito agli italiani, comunque, è arrivato da Bagdad, che evidentemente giudica la messa in sicurezza della diga necessaria.
Quali che fossero le motivazioni alleate, i militari hanno avviato il lavoro sperando per il meglio ma preparandosi al peggio. E la struttura della presenza complessiva su terra irachena, con l’apparato di Personnel Recovery che schiera elicotteri da trasporto e AH-129 “Mangusta” da attacco, la disponibilità di assetti d’artiglieria e di aerei facilmente convertibili, fanno capire che il contingente italiano vuole essere pronto a ogni possibile scenario.