Corriere della Sera, 10 maggio 2016
Vika Azarenka, la tennista che ha sconfitto la depressione concentrandosi sui dettagli
Ogni volta che torna a casa – Minsk, Bielorussia – babushka le fa trovare uva e cioccolata in tavola. Dolcezza, contro gli urti della vita della top-10. «Nonna fino a 74 anni si è alzata tutti i giorni alle 5 per andare a lavorare. Sempre con il sorriso. La vedo troppo poco ma con lei passo momenti impagabili. Quando mi sento giù penso a babushka e ritrovo l’ottimismo».
Vika Azarenka, 26 anni, è la tennista più calda del circuito: la doppietta Indian Wells-Miami l’ha proiettata al numero 6 del mondo, arriva a Roma da favorita, ripartirà per Parigi e Wimbledon da predestinata. «Quest’anno in palio c’è anche l’oro dei Giochi olimpici di Rio: non mi precludo nulla» sottolinea squillante alla vigilia del debutto al Foro Italico. Ma c’è stato un tempo, non lontano, in cui questa evoluzione 3.0 della Sharapova (nessun riferimento al meldonio) capace di sbancare per due volte consecutive l’Australian Open (2012, 2013) issandosi al primo posto del ranking, passava le giornate a piangere. Infortunata, mollata dal fidanzato rapper americano Redfoo, Vika ha trovato conforto sulla spalla di una collega sedotta e abbandonata, Caroline Wozniacki (lasciata sull’orlo delle nozze dal golfista Rory McIlroy), poi ha avuto il coraggio di parlare apertamente del fantasma che abita le soffitte degli sportivi disillusi: la depressione. «Finché ho negato a me stessa di essere depressa, nulla è cambiato. Il momento peggiore è stato quando volevo smettere di giocare a tennis – spiega diretta, senza abbassare gli occhi azzurri —, la cosa che amo di più in assoluto. Avevo il cuore spezzato, vedevo tutto nero. Voler guarire è stato il primo passo verso la luce. Sono orgogliosa di essermene tirata fuori». Due stagioni per rimettere insieme i pezzi di un’anima in frantumi, un vaso di cristallo sotto la scorza da leonessa in grado di sbranare Serena Williams in quattro finali («Non ho antidoti né ricette miracolose: Serena mette l’asticella così in alto che è impossibile non sentire lo stimolo di saltare: mi spinge a dare il meglio, e viceversa»). Era sprofondata. Rieccola qui, in cerca di un gelato in via del Corso, guarita dal mal di schiena di Madrid e in rotta di collisione con Roberta Vinci nei quarti degli Internazionali d’Italia. Con la treccia bionda, gli urli da partoriente e i completini anticonformisti: calzoncini e fuseaux alla caviglia. «Tornare al vertice è stato un processo. Mi sono concentrata sui dettagli. Ho imparato che le piccole cose possono fare grandi differenze. Ho scelto di godermi il viaggio, senza preoccuparmi della meta».
Nata a Minsk, Vika è l’incarnazione dell’american dream emigrato all’Est. Fu Nikolai Khabibulin, portiere della Nazionale di hockey russa, il primo a credere nel suo talento e a pagarle stage all’estero. Oggi vive a Scottsdale, Arizona, dove cucina, scrive, dipinge, legge, balla a testimonianza di curiosità non banali nell’appiattito mondo del tennis, senza mai dimenticare le radici.
Qual è il tuo ricordo bielorusso più antico, Vika? «Il giorno in cui torno da scuola e mia madre mi regala una racchetta usata. Esco di casa e vado a palleggiare contro il muro. È ancora lì, sbrecciato ma in piedi. Se chiudo gli occhi davanti a quel muro, parto per intensissimi viaggi nel tempo». Dell’idolo Steffi Graf, conosciuto emozionandosi fino alle lacrime a 15 anni, coltiva l’immensità del sogno del Grande Slam (1988, incluso l’oro olimpico).
Dell’ex collega Flavia Pennetta, che oggi al Foro verrà festeggiata come merita, ha apprezzato l’audacia: «Non so se lascerei al top, come lei, ma so che Flavia ha meritato ogni secondo del suo fantastico trionfo all’Open Usa». Già, New York. Dopo due finali consegnate a Serena, alla fine della stagione Vika vorrebbe brindare in cima al grattacielo del Rockefeller Center a un nuovo inizio. «Non mi piace parlare di ciò che non ho ancora ottenuto. Meno parole, più fatti». Babushka insegna. Vika, con passione, esegue.