La Stampa, 10 maggio 2016
Uncredit, una banca non troppo difficile da gestire. Almeno secondo Ghizzoni
I numeri, come spesso accade, raccontano molto anche se non tutto. E i numeri delle due maggiori banche italiane, impegnate anche a tenere in piedi attraverso il fondo Atlante il sistema creditizio nazionale in difficoltà, raccontano due cose.
Che il titolo Unicredit ha perso negli ultimi dodici mesi quasi il 52% del suo valore, mentre Intesa Sanpaolo è scesa del 26% e l’indice che misura l’andamento di Borsa di tutte le banche quotate italiane è andato giù del 40,3%.
Proprio oggi Unicredit farà parlare altri numeri, quelli della sua trimestrale: il «consensus» degli analisti finanziari, cioè la loro previsione media, è che la banca guidata da Federico Ghizzoni metta a segno nei tre mesi da gennaio a marzo un utile netto di 379 milioni. Ma anche tra i 20 analisti che hanno formato questa media le opinioni sono variabilissime: il giudizio più fiducioso dà a Unicredit un utile trimestrale di 756 milioni, il più freddo di soli 202 milioni. Intesa-Sanpaolo, che ha annunciato i suoi dati la scorsa settimana e che vale oggi in Borsa circa due volte la concorrente – 37 miliardi contro 19 – è arrivata nel trimestre a un utile di 806 milioni.
I conti
Ghizzoni conta sull’appuntamento di oggi per mostrare che i numeri della sua banca sono buoni, ma anche per cercare di dissipare una voce ricorrente e fastidiosa. È quella che vorrebbe l’amministratore delegato spinto verso l’uscita da alcuni soci, non convinti dell’efficacia della sua azione. I cahiers de doléances appaiono ampi e articolati: la redditività non ingrana a pieno regime, l’accordo con Santander per il risparmio gestito di Pioneer, concluso oltre un anno fa e che avrebbe dovuto migliorare i requisiti patrimoniali della banca, non si vede ancora; sotto tiro c’è anche la garanzia di sottoscrizione che Unicredit aveva prestato per l’aumento di capitale da un miliardo e mezzo della Popolare di Vicenza e che è stata girata poi al fondo Atlante che si è ritrovato così in tasca il 99% dell’istituto in crisi.
La governance
Dal quartier generale della banca si nega qualsiasi rivoluzione al vertice e ieri è toccato al presidente di Unicredit Giuseppe Vita versare olio sulla maretta delle illazioni: «Sulla governance è tutto tranquillo». Sta di fatto che Ghizzoni oggi parlerà probabilmente al cda e al mercato per spiegare che l’operazione con la Popolare di Vicenza non è stato un azzardo, ma un semplice mandato esplorativo da cui Unicredit si sarebbe potuto sfilare anche senza caricarne il peso sulle spalle di Atlante, e rassicurare la Borsa che il gruppo – come ha detto numerose volte negli ultimi mesi – non ha bisogno di chiedere nuovi fondi agli azionisti e può generare da solo il capitale di cui ha bisogno.
«Too complex to manage»
Ma dietro il diverso apprezzamento in Borsa dei due principali gruppi italiani c’è anche dell’altro. La preoccupazione del «too big to fail», la parola d’ordine che salvò i colossi di Wall Street nella crisi del 2008 perché erano appunto «troppo grandi per fallire», senza rischiare così di travolgere nella loro caduta tutto il sistema finanziario, è stata sostituita dal «too complex to manage», banche troppo complicate e difficili da gestire. La definizione non è di oggi, risale almeno al 2012, quando fu usata in un dibattito alla Federal Reserve di Saint Louis, ma oggi le megabanche e i loro problemi sono in alto nelle preoccupazioni dei regolatori. Negli Usa si tratta di colossi come Jp Morgan Bank of America o Citi, in Europa una Deutsche Bank può essere un buon esempio e in Italia Unicredit sconta senza dubbio il fatto di avere una struttura assai più ramificata e globale della concorrente Intesa Sanpaolo, concentrata soprattutto sul mercato nazionale. Se si vuole vederla in una prospettiva di lungo periodo l’impero di Alessandro Profumo, che nei primi Anni 2000 aveva portato il gruppo dalla Germania al Kazakistan, dalla Polonia all’Ucraina, non ha dato i frutti sperati. Anche perché la grande scommessa di un vero mercato finanziario unico europeo non è andata in porto.
Basteranno parole e atti di Ghizzoni per garantirgli un saldo futuro di fronte a soci che spaziano dalle fondazioni di Torino e Vicenza agli emiratini del fondo Aabar, fino ai libici divisi tra due capitali? Ascoltata dalle torri gemelle di Unicredit, nella nuovissima piazza Gae Aulenti – già passate dall’immobiliarista Manfredi Catella al fondo sovrano del Qatar, anche questo un segno dei tempi – la ridda di voci non ha fondamento. Ma anche tra i grandi banchieri si esercita la nobile arte del pettegolezzo sui colleghi e ieri mattina in una sala di Borsa dove la relazione della Consob è stata non a caso dedicata tutta alla situazione difficile degli istituti di credito c’erano due assenze che spiccavano: quella di Carlo Messina, il Ceo di Intesa-Sanpaolo impegnato nel classico giro tra investitori che segue la presentazione dei risultati trimestrali, e quella di Ghizzoni che si preparava invece a spiegare che la sua banca non è troppo complessa per essere gestita.