Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2016
Dopo la Cina, l’Asia punta tutto sull’India
Perso il turbo cinese, l’Asia riunita a Francoforte sotto le bandiere della sua banca per lo sviluppo elegge suo nuovo tedoforo della crescita l’India, dove, per paradosso, vive la grandissima parte dei 450 milioni di diseredati del continente, quelli che possono contare su meno di due dollari al giorno.
È questo il robusto filo rosso del 49° meeting annuale dell’Asian development bank: praticamente in ogni riunione, dibattito, seminario, briefing della quattro giorni sul Meno dal 2 al 5 maggio, il tema sullo sfondo è stato il rallentamento della Cina, le sue conseguenze per gli equilibri della regione, la ricerca di economie in grado di alimentare la rincorsa dell’Asia, nella previsione che l’anno prossimo il continente genererà il 60% della crescita globale e che continuerà ad aumentare il suo peso sul Pil del mondo, già oggi a un terzo del totale secondo le stime Adb.
«L’Asia – spiega il capoeconomista dell’Adb, Shang-Jin Wei – sta rallentando per effetto della frenata cinese e della debole congiuntura mondiale. Alcuni Paesi però corrono molto velocemente, l’India soprattutto, per la quale prevediamo una crescita del 7,4% nel 2016 e un’accelerazione al 7,8% del 2017. Di contro, il Pil cinese scenderà al 6,5% quest’anno e al 6,3% il prossimo, un rallentamento dovuto a fattori strutturali che non ci sorprende e che secondo noi non deve essere motivo di panico, perché il cambio di modello economico della Cina, con lo spostamento del focus sui consumi interni, la renderà meno esposta agli shock esterni e quindi più stabile». E di certo l’economia mondiale ha bisogno di un fattore di volatilità in meno.
Proprio l’accelerazione dell’India, spiega Wei, potrebbe dare una mano alla ripresa della domanda mondiale di materie prime: il piano del Governo Modi di sviluppare l’industria nazionale e il settore manifatturiero, che oggi produce solo il 17% del Pil, «porterà a un aumento della domanda di commodities ed energia» di cui il Subcontinente è già un forte importatore. «Proprio contando sull’India – enfatizza Wei – pensiamo che il mercato delle materie prime potrà riprendersi indipendentemente dal ritorno della Cina a tassi di crescita a due cifre. L’India, ma anche altri Paesi dell’Asia meridionale, come il Bangladesh e, guardando a Est, il Myanmar e le Filippine, hanno un grande potenziale di crescita, legato in primo luogo al forte aumento della popolazione. Tuttavia, questi Paesi devono fare in modo di riuscire a dare a tutte queste persone le condizioni per trovare lavoro». Magari un lavoro «di qualità», come ama dire l’Adb, vale a dire retribuito con un salario decente e svolto in condizioni di sicurezza sociale accettabili. Solo in India, un milione di giovani bussano ogni mese alle porte del mercato del lavoro: un grande dividendo demografico, quando in Cina si devono già fare i conti con l’invecchiamento della popolazione e ogni anno aumenta il numero di persone in pensione.
Dopo aver messo a segno una crescita del 7,5% nel 2015, l’India ha già conquistato il titolo di grande economia a più rapida crescita al mondo, un primato strappato proprio alla Cina. Il suo Pil è però ancora solo un quinto di quello cinese e non pochi, a cominciare dallo stesso governatore della Banca centrale indiana, Raghuram Rajan, hanno espresso dubbi sull’attendibilità delle statistiche indiane, che all’inizio dello scorso anno hanno adottato un nuovo metodo di calcolo del Pil, da alcuni ritenuto il vero responsabile del boom. Wei, però, accantona queste perplessità e difende la validità dei dati (del resto l’Fmi attesta la crescita indiana al 7,3% nel 2015 con accelerazione al 7,5 nel 2016). «L’India – spiega Wei – cresce molto anche perché ha un punto di partenza molto basso, il suo costo del lavoro è un terzo di quello cinese. E ha un Governo fortemente impegnato a sostenere lo sviluppo. Certo non sempre riesce a mantenere tutte le promesse che fa, ma restiamo convinti che anche se il processo di riforme stentasse, l’India continuerà a crescere in modo sostenuto».
I grandi gruppi mondiali sembrano crederci: secondo recenti dati di Nomura, gli investimenti diretti esteri nell’anno fiscale 2015 sono saliti a 34,9 miliardi di dollari, dai 21,6 miliardi del 2014, con un balzo del 61,6%. Un’iniezione di capitali nell’economia reale pari all’1,7% del Pil.