La Stampa, 7 maggio 2016
Dal caso Schwazer al Bodybuilder foggiano morto in palestra. Breve viaggio nell’Italia anabolizzata
Il caso di Alex Schwazer, l’atleta che dopo essere stato squalificato per quattro anni vuole tornare in pista e partecipare alle Olimpiadi di Rio, scuote il mondo dello sport azzurro. La Wada, l’agenzia mondiale antidoping, pubblica la lista dei 114 medici e preparatori atletici da cui è meglio stare alla larga e 61 di loro sono italiani. A Foggia polizia e guardia di finanza arrestano Claudio Imperio, ex campione mondiale di bodybuilding over 40, con l’accusa di smercio di sostanze dopanti. Il 17 aprile era morto Gianni Racano, bodybuilder foggiano di 32 anni, proprio per aver assunto sostanze dopanti in vista di un’importante gara a Foggia, un altro era stato ricoverato in gravi condizioni e ora si cerca di capire se c’è un traffico di farmaci che rischia di decimare i culturisti.
Cosa succede allo sport nostrano? È un’Italia anabolizzata e pompata quella che ogni tanto si affaccia dalle pagine della cronaca nera. Dal professionista al dilettante, procurarsi aiuti chimici pare sia diventato facilissimo grazie a internet o medici accondiscendenti. E i casi si moltiplicano.
Sequestri raddoppiati
Se nella casa e nel garage di Imperio sono state trovate 300 confezioni di farmaci dopanti con tanto di registro che riporta i nomi di altri 15 bodybuilder della provincia pugliese, poche ore dopo l’ufficio Dogane e i carabinieri del Nas di Milano sequestravano 130 fiale di steroidi, 2200 pastiglie dopanti e 50 fiale di altre sostanze anabolizzanti. Sono numeri piccoli, se presi singolarmente. Ma le quantità sono diventate importanti. Basti pensare che nel giro di un solo anno i carabinieri del Nas hanno quasi raddoppiato il valore di fiale e confezioni sequestrate: da 1,847 milioni nel 2014 a 3,315 nel 2015.
Il caso del bodybuilder foggiano è solo l’ultimo di una serie. Proprio in Puglia nel 2011 era morto un altro culturista durante una gara allo Sheraton di Bari. E un terzo era deceduto nel 2013. Si sperava che con l’operazione «Belzebù» si fosse posto un freno. Non era così.
Doping olimpico
Mentre il presidente del Coni Giovanni Malagò difende lo sport italiano davanti alla settima commissione al Senato che gli chiede conto del fatto che siamo il secondo Paese per atleti olimpici trovati positivi all’antidoping («Questo dato si può leggere in due modi – dirà – o siamo un Paese che fa largo uso di sostanze dopanti, oppure siamo un Paese che controlla, dove c’è un setaccio, una maglia, non si passa»), il ministero della Salute certificava – nella relazione della Commissione di vigilanza antidoping – che ormai i farmaci per migliorare le prestazioni sportive sono stati sdoganati a livello dilettantistico e sempre più spesso ne fanno uso persone più in là con gli anni.
La vigilanza del ministero
Controllando i dati della Commissione, il quadro che ne emerge non è confortante. Durante il 2014 sono stati pizzicati 58 atleti positivi (il 5,1% tra gli uomini e l’1,8% tra le donne) dopo analisi a campione effettuate in 297 manifestazioni sportive a tutti i livelli.
Alcune scelte della Commissione, però, lasciano perplessi. Perché controllare 23 golfisti e appena 7 body builder, considerata la diffusione di sostanze dopanti nei due sport (confermata anche dalla positività nei controlli, 8,7% nel golf e 28,6% nel body building)? E perché concentrarsi così tanto sulle manifestazioni sportive nel Nord Italia (43,8% dei controlli) quando 7 atleti su 10 di quelli trovati positivi partecipavano a gare nel Centro e nel Sud?
È vero, come la relazione ripete più volte, che i controlli sono a campione e che questo non è rappresentativo della disciplina sportiva. Ma tra il 2003 e il 2014, alcuni sport si sono «distinti» nelle percentuali di positività ai test: bodybuilding, appunto (15%); pesistica (7,8%), jiujitsu (18,8%) e, curiosamente, le bocce (18,2%). Forse un occhio di riguardo sarebbe auspicabile.