La Lettura, 8 maggio 2016
Smash/1 Sandro Veronesi e Marco Missiroli spiegano perché hanno voluto scrivere di tennis. Una questione di amore, passione ed erotismo
Per l’uscita di Smash. Quindici racconti di tennis, antologia in cui altrettanti autori italiani contemporanei si confrontano con racchette, palle gialle, reti e storie spesso (molto) personali, abbiamo incontrato a Roma gli scrittori Sandro Veronesi, che l’ha ideata e vi partecipa con il racconto Vitamina, e Marco Missiroli, tra gli autori chiamati in campo.
Da dove nasce questo desiderio di scrivere di tennis?
SANDRO VERONESI – Perché il tennis è una passione molto privata delle persone e anche degli scrittori. John Maxwell Coetzee rivela in una lettera personale a Paul Auster di essere un appassionato, come se stesse raccontando l’omosessualità o una cosa molto intima. Vi è quindi un serbatoio e ne avevo coscienza, perché è inevitabile che quando uno fa lo scrittore e gioca a tennis associ le due cose, anche se non ne ha mai scritto. Ho cercato allora gli amici di cui sapevo che non avrei violato l’intimità nell’invitarli a scriverne, scrittori che apprezzavano e custodivano quell’esperienza non dico come un segreto, ma come una confidenza da fare al momento giusto.
MARCO MISSIROLI – Io, personalmente, avevo a che fare con un totem, tanto che ho impiegato quattro mesi a risolvere le mie pagine. D’altra parte, sono tre le possibilità quando devi scrivere un racconto sul tennis: puoi scrivere di tennis, scrivere sul tennis o scrivere attraverso il tennis. Se i primi due modi riguardano cronisti o commentatori raffinati, uno su tutti il grande Gianni Clerici, il terzo è il più difficile, perché significa toccare un nervo scoperto della tua vita privata. Tutti i racconti dell’antologia sono scritti «attraverso il tennis» e quasi tutti sono in prima persona singolare, un po’ a confermare l’intimità della domanda, un po’ perché credo sia naturale per uno sport solitario come il tennis.
In che senso solitario?
MARCO MISSIROLI – La solitudine del tennis è simile a quella della scrittura, anche per questo credo ci sia un legame segreto tra scrittori e tennisti, perché il tennis è una metafora profonda dell’atto di scrittura. L’avversario è la parte di te che non scrive. Ogni volta che inizio un libro penso a quello che disse Edberg prima di una finale di Wimbledon: «Ero sicuro di perdere, poi ho vinto». È una frase che suona come quella di Samuel Beckett che Sandro, girandola, ha citato spesso: «Non posso continuare, continuerò».
SANDRO VERONESI – Nel romanzo che più di tutti affronta il tennis, Infinite Jest di David Foster Wallace, ci sono i sermoni del coach dell’Accademia di tennis Gerhardt Schitt che dipingono il tennis come uno sport che si gioca da soli, quasi a rappresentare il conflitto tra il Sé e l’Io. Tu scopri il tuo Io per il tramite dell’avversario che è un tuo complice, un tuo amico, sta con te. Il vero avversario è il tuo limite che provi a superare, da lì sgorga quell’Io che si definisce così violentemente nelle partite.
Nell’antologia, a posteriori, avete trovato una traccia comune?
SANDRO VERONESI – In più della metà dei racconti, senza esserci messi d’accordo, compare il padre come figura fondamentale, l’antologia poteva chiamarsi anche Smash per mio padre.
MARCO MISSIROLI – Anche nel mio caso, tant’è che il racconto si intitola Mio padre e lo dedico a lui, Sauro, che è il suo nome.
Per entrambi vale questo rapporto tra l’amore per il tennis e il padre? È un canale affettivo privilegiato?
SANDRO VERONESI – Nel mio caso no, perché mio padre non era un osservatore, non ha mai visto le partite con me. Era uno che voleva farle, le cose. Per intenderci, mio padre non è mai stato in spiaggia, stava in mare. Guardare lo sport non gli interessava, gli interessava farlo. Lo giocava come altre cose, non che fosse un vero appassionato. Altre volte, invece, il padre non c’è, come quello di Matteo Garrone, che emerge nel suo racconto intervista con Edoardo Albinati, un critico teatrale che non aveva piacere che il ragazzo pensasse solo al tennis e non leggesse niente. Non lo incoraggiava, anzi; il periodo di successo tennistico del figlio rappresentò il distacco mentre il fallimento nel diventare professionista è stata l’occasione per ritrovarlo. Anche nel racconto di Matteo Codignola il padre ostacola la passione per il tennis del figlio. Prima si fanno i conti con se stessi e poi immediatamente col padre quando si gioca a tennis, il risultato è che il libro è pieno di racchette rotte e di padri.
MARCO MISSIROLI – Per me, al contrario, il tennis è un ponte di dialogo tra un padre e un figlio che forse, diversamente, non avrebbero dialogato così bene. Cerco di raccontarlo nelle mie pagine. Ho giocato con lui e anche se ho il rovescio fiacco e nessuna pazienza, non mi piego e ho il baricentro troppo alto, sono stato un grande giocatore come figlio. Poi guardavo con lui le partite, in televisione e dal vivo, credo che questo crei un processo di osmosi affettiva fondamentale. Un po’ per il suono del tennis, che anche visto in televisione ha un effetto mantrico per chi lo segue, ti manda in trance, un po’ per la forza del tennis che ha regole molto fisse e ti lega nella visione.
Missiroli ha visto Federer dal vivo in alcune occasioni e ne parla nel suo racconto. Qual è dunque la differenza tra il tennis visto dal vivo, quello scritto e quello guardato in televisione?
MARCO MISSIROLI – Giocarlo, vederlo e leggerlo, sono tre dimensioni completamente differenti e Wallace le ha scomposte ne Il tennis come esperienza religiosa. È l’unico che è riuscito a mettere insieme, pur non essendo io un wallaciano come Sandro, il fatto che il tennis possa essere meglio descritto che visto dal vivo. È stato l’unico a farlo e in questo c’è un rapporto molto stretto col sesso. Il sesso è molto meglio farlo che vederlo, a meno che a descriverlo tu non abbia davanti un campione come Nabokov. Lo stesso vale per il tennis, è molto meglio giocarlo e vederlo che leggerlo, a meno che tu non abbia Wallace a scriverne e che è riuscito a fare in Infinite Jest quello che non è riuscito a nessuno, mettendo a segno il match point della letteratura.
SANDRO VERONESI – Il fatto è che è molto facile descrivere una partita di tennis, ma può essere anche molto deludente. È difficile che quando si scrive di tennis le cose entusiasmanti siano la descrizione dei colpi, esattamente come quando si descrive il sesso è difficile che le righe esaltanti di una pagina anche molto sensuale siano quelle della descrizione del coito. Il tennis visibile in televisione, invece, è cosa recente, per anni era solo un’inquadratura dall’alto.
Avete dei «Federer Moment» da ricordare? Quei momenti del gioco di Federer di cui scrive Wallace in cui ti chiedi «com’è possibile che l’abbia colpita?»...
SANDRO VERONESI – Sì, tanti. Ricordo un quarto di finale agli Australian Open di Federer contro Juan Martín del Potro, un rovescio lungo linea dove la palla gialla correva talmente in asse con la linea bianca che era scomparsa e riapparve contro la rete di fine campo. Del Potro non riuscì a prenderla, era un passante lungo linea talmente preciso che era invisibile. Quello era un «Federer Moment», uno di quei momenti simili a quelli che Carmelo Bene vedeva nel suo Lorenzaccio che si annulla infilando il ferro nel petto del tiranno, un momento magico in cui nulla esiste se non l’atto. Sono momenti sostanzialmente belli, ma che non puoi narrare, puoi solo adorarli e c’è qualcosa di adorante nell’apprezzamento del tennis come momento estetico.
MARCO MISSIROLI – Io ne ho uno dal vivo, nella finale degli Internazionali di Roma del 2013, Federer aveva la schiena a pezzi e io e mio padre lo guardavamo patire con classe. Non aveva elasticità dei movimenti, non aveva precisione e forza, aveva ancora l’eleganza. Alla fine del primo set Nadal scaricò un rovescio incrociato che costrinse Federer ad allungarsi malamente, pensavo che la schiena gli si sarebbe spezzata. Invece, Dio sa come, assorbì il colpo con la racchetta smorzandolo: venne fuori una carezza e la palla finì un metro oltre la rete davanti a un Nadal immobile. Ricordo di aver guardato mio padre tenersi il viso come a dire: «L’ha fatto veramente?».
L’avete già nominato, ma certo è che con David Foster Wallace e il suo «Il tennis come esperienza religiosa», in Italia, l’apprezzamento letterario per la disciplina ha fatto un salto in avanti. Come vi rapportate con quelle pagine?
MARCO MISSIROLI – Wallace ha in qualche modo reso straordinario e patetico il racconto del tennis. L’ha narrativizzato, legittimandolo come unità di misura quasi letteraria. In qualche modo ha chiuso l’immaginario di questo sport in un recinto. Poi per fortuna è arrivato Open di Agassi e Moehringer che l’ha tirato fuori.
SANDRO VERONESI – Mi sono piaciute, ma i suoi effetti mi hanno francamente stuccato. Sono nati molti epigoni, come sempre accade quando qualcosa viene sdoganato, che si sentono autorizzati a fare della filosofia del tennis con risultati mediocri.
Quanto erotismo c’è nel tennis?
SANDRO VERONESI – Tanto, anche in quello letterario; tant’è che ci si innamora di Lolita e si capisce che la vicenda andrà a finire veramente male quando Humbert descrive come Lolita gioca a tennis. Poi nel tennis dal vivo a volte la bellezza è nascosta. Penso a Steffi Graf che quando giocava era sempre nervosa, non si sedeva mai, era presa da una nevrosi divorante che non la lasciava apparire per quello che era, bella, come si è svelata poi al fianco di Agassi e come ogni tanto emergeva in fotografia, dal profilo statuario.
MARCO MISSIROLI – Non vale solo per il tennis femminile. Siamo tutti innamorati di Federer, sensualmente, per come gioca, non solamente per il suo aspetto e per il fatto che non suda a parte quando prende antidolorifici. Credo sia proprio una questione erotica, non è normale che un tennista abbia così tanti adepti e i «federeriani» lo adorano perché passa attraverso i cinque sensi. Altri giocatori, a parer mio, come Djokovic e Nadal, non hanno niente di sensuale.
Qual è l’altra faccia della sensualità?
SANDRO VERONESI – Il dolore, fisico e non solo. Matteo Garrone racconta di quando arrivò a un passo dal circuito professionistico. Andò in America nell’Accademia di Nick Bollettieri con il suo travel team, un gruppo di professionisti tra cui c’erano Agassi e Courier, e giocò davanti a loro contro un messicano che era il trecentesimo in classifica. Garrone vinse, ma la reazione del travel team non fu complimentarsi con lui, ma prendere in giro il messicano. Lì, capì che non ce n’era per lui. Venire umiliati anche se vinci, capisci che dolore può procurare il tennis? O essere bravo, magari uno dei migliori del mondo, ma perennemente sconfitto, come Vitas Gerulaitis contro Björn Borg. Il problema del tennis è che da un lato c’è l’aspetto sensuale, e ne abbiamo detto, ma dall’altro c’è il dolore e la sopraffazione che uno deve subire da se stesso, più che dall’avversario, scontrandosi con i propri limiti.
MARCO MISSIROLI – Non conosco nessuna storia legata al tennis che non sia legata al dolore. Federer, che sembra colui che non suda, colui che è sempre felice, ha avuto una trafila di dolore anche fisico, prima di essere arrivato dove è arrivato, incredibile, dal 2001 al 2004, molto grossa.
Dite del dolore e viene in mente l’apertura di «Open» di Agassi, con il campione che si sveglia con la schiena rotta, impotente di fronte alla sua fisicità. Quel libro, scritto con l’aiuto fondamentale di J. R. Moehringer, è stato un bestseller anche in Italia, per voi che valore ha?
SANDRO VERONESI – C’è tutta la letteratura possibile del massimo livello precipitata in un libro scritto da un premio Pulitzer che sa astrarsi rispetto alla materia reale come un Truman Capote in A sangue freddo rispetto al caso di cronaca e che sa conciliare la scrittura con il tennis. È un caso raro, ma il tennis rimane superiore: certe cose che vedi sul campo, sono oltre, superano la scrittura, la trascendono e puoi solo adorarle. Detto questo, funziona anche perché insieme ad Agassi ci sono il padre, l’allenatore Nick Bollettieri, Brooke Shields e Steffi Graf. Non era un piacere vedere Agassi giocare, ma era efficace, come quelli che odiano il tennis ma devono vincere se no è peggio, perché il padre non glielo perdona, ed era il caso di Agassi. Doveva vincere, ma lo faceva controvoglia, quasi non amasse il tennis.
MARCO MISSIROLI – È l’unico libro sul tennis che ha portato molti lettori che non lo praticano a capire che dietro il tennis c’è una narrazione e Moehringer, cosa non facile, è riuscito a inserirla perché ha dato voce solo ad Agassi, in prima persona, senza una mediazione giornalistica. In questo l’ha raccontato molto bene, lui era l’unico tennista che quando vinceva provava sollievo e non godeva, aveva semplicemente fatto quello che doveva fare. S’inginocchiava all’altare del padre dicendo: «Eccomi, questo è il sacrificio in tuo onore».
Da italiani amerete anche il calcio, ma che differenze fondamentali vedete con il tennis?
SANDRO VERONESI – Il calcio è soltanto competizione. Non conosco persone che guardano le partite per godersi lo spettacolo, chi non è tifoso infatti non lo guarda mai, nel tennis vedo non solo le partite a cui tengo, ma anche quelle di cui non sono tifoso per cogliere qualcosa che evidentemente trascende la competizione. Anche se oggi è diventato uno sport giocato troppo sulla potenza, sia nel maschile che nel femminile, per colpa dei coach, spesso ammiro lo stile, mi capita con Richard Gasquet di cui ammiro i rovesci e con Nicolas Mahut e Michaël Llodra, non importa se poi vincono o meno. Nel calcio è diverso, ti ritrovi a tifare per una delle due squadre in campo: devi decidere.
MARCO MISSIROLI – Il calcio gioca di più sulla comunanza, mentre il tennis è Dostoevskij, sei lì nell’ombra della tua vita contro te stesso.
SANDRO VERONESI – Comunque, io amo tutti gli sport e li amo perché hanno dietro storie assurde, compreso il curling che seguivo a tarda notte. Ci sono i Federer anche lì. Lo sport è una fucina di mostri, di persone superdotate, anche in sport minori dove non diventerai mai ricco come Federer, ma se sei il migliore, lo sei. Vedi la bellezza, quando incarni la tua disciplina.