La Lettura, 8 maggio 2016
Nicholas Felton, il visual design che con una foto è riuscito a rendere «visibile l’invisibile»
Nicholas Felton è conosciuto nel mondo dell’ information design per tre ragioni: è uno dei creatori della timeline di Facebook (la bacheca dove scorrono i contenuti degli «amici»); ha inventato Reporter, una app molto usata per tracciare le proprie attività quotidiane; ma soprattutto è l’autore di un rapporto annuale, il Felton Report, in cui racconta i suoi dodici mesi con visualizzazioni dati e infografiche: dal tempo passato con la fidanzata alle città visitate fino al numero di caffè consumati ogni giorno. Un progetto simbolo – al punto da meritarsi un posto nella collezione del Moma di New York – del quantified self, la filosofia diventata molto popolare grazie alle nuove tecnologie di misurazione, che vede nella quantificazione delle proprie abitudini e movimenti il modo migliore per conoscersi (ed eventualmente cambiare).
Ma la svolta per Felton è arrivata con il rapporto del 2010, quando il giovane designer ha deciso di dedicare misurazioni e infografiche non più al suo anno appena trascorso bensì alla vita intensa di suo padre, da poco scomparso. Il designer ha analizzato centinaia di documenti appartenenti al genitore, ingegnere tedesco fuggito dalla furia nazista, e li ha restituiti sotto forma di dati. È stato allora, studiando le tremila fotografie lasciate dal padre ed estraendo da esse numerosi dettagli sulla vita dell’uomo e le connessioni con il tempo e lo spazio, che Felton ha scoperto nelle fotografie degli immensi database.
Nasce così il concetto di photoviz, termine che dà il titolo al libro curato da Felton, uscito recentemente per Gestalten, che riunisce alcuni degli esempi più rappresentativi del nuovo linguaggio raccolti dal designer sul suo Tumblr: «Immagini che combinano la più ampia narrativa delle visualizzazioni con l’immediatezza delle fotografie».
Al telefono dal suo studio di Brooklyn Felton spiega che lo scopo delle visualizzazioni dati è quello di rendere «visibile l’invisibile», mostrare le storie che si nascondono nei numeri. Lo stesso vale per un certo tipo di fotografia: «Le immagini sono in grado di raccontare storie in una maniera molto più diretta delle infografiche – continua Felton—, il contesto può essere compreso chiaramente senza bisogno della traduzione richiesta dal dato». Questo vale per paesaggi e oggetti, ma soprattutto per le persone: «I volti e i corpi sono troppo difficili da comunicare con i grafici – spiega Felton – ma sono da sempre un soggetto naturale per le foto». A cominciare da quella che è considerata la prima foto di un essere umano della storia della fotografia: l’istantanea scattata da Louis Daguerre nel 1838 (qui accanto) che ritrae un Boulevard du Temple deserta dove si vede un’unica persona, forse impegnata a farsi pulire le scarpe.
Quel documento non è solo un baluardo della storia della fotografia, ma costituisce il primo esempio di come le immagini possano essere manipolate per «guidare l’attenzione di chi guarda». A occhio nudo l’uomo della fotografia di Daguerre appare, infatti, l’unica presenza su una strada solitamente molto trafficata di Parigi: in realtà quel «dato» è il prodotto della sovraesposizione di sette minuti che ha registrato solo l’uomo fermo, perdendo completamente il via vai veloce della strada.
È proprio grazie alle differenti tecniche odierne – infrarossi, raggi X, raggi ultravioletti, foto in sequenza, collage, lunga esposizione – che è possibile lavorare sulle immagini fino a renderle contenitori di informazioni cruciali. «Le scarpe consumate così come i tasti rovinati di una tastiera – illustra Felton – sono rivelatori del troppo tempo passato, ma ci sono moltissimi oggetti che non hanno una rappresentazione fisica: così le photoviz possono dare manifestazione all’impercettibile».
È il caso della foto degli aerei (in alto) scattata dall’artista Mike Kelley che offre in un’unica esperienza visuale il movimento aereo in partenza di una giornata intera all’aeroporto di Los Angeles.
La tecnica utilizzata è quella della composizione: «In realtà in questo caso c’è un trucco nel trucco», spiega Felton. Per restituire un’immagine alquanto nitida delle tipologie e grandezze di velivoli in partenza, Kelley non ha assemblato i 400 voli giornalieri ma li ha filtrati, «enfatizzando o sminuendo dettagli».
Allo stesso modo, le fotografie che mettono insieme, ad esempio, diversi momenti della giornata dello stesso paesaggio [...] forniscono diverse versioni dello stesso paesaggio grazie all’esposizione multipla.
«Più che di Big Data bisognerebbe parlare di Big Photo», avverte Felton ricordando che oggi – grazie a smartphone, droni, fotografia satellitare e dispositivi – si producono più di 400 miliardi di fotografie all’anno (nel 1930 erano un miliardo). Un bacino ricchissimo di informazioni e dati che utilizzando le diverse tecniche può trasformare momenti di vita in archivi di dati fotografici da comporre, estrarre e assemblare con i vari strumenti e filtri.
«Un’istantanea classica – puntualizza il designer – diventa photoviz quando può esprimere informazioni che non sono visibili o evidenti in natura».
È solo l’inizio. Felton è consapevole che vanno studiati modi e tecniche per orientarsi nel caos delle «Big Photo»: «Un inizio è rappresentato dalla possibilità, offerta da alcuni smartphone, di indicizzarle per anno e luogo. Nel futuro sarà possibile filtrarle per persone, attività, esperienze». L’ennesimo strumento di controllo? Forse, ma anche e soprattutto un modo per riconnetterci con le nostre memorie, spesso abbandonate nelle cartelle del telefono.