La Lettura, 8 maggio 2016
Watson potrebbe rispondere al telefono e sostituire i call center. Ma sarà abbastanza paziente?
In E.T. L’extraterrestre di Steven Spielberg c’è un passaggio che riesce a strappare emozioni anche ai bambini di oggi, 34 anni dopo l’uscita della pellicola, nonostante una fantasia dopata dalle immagini digitali: «E.T., telefono, casa». L’extraterrestre, ormai alla fine della storia, impara a parlare e coglie la forza di quell’invenzione di Antonio Meucci che governa la comunicazione umana ancora nel 2016, sebbene sotto le spoglie di uno smartphone. È probabile che il lavoro di Carlo Rambaldi, considerato allora il mago degli effetti speciali e capace di fare sognare le menti alimentate nel brodo analogico, oggi faccia sorridere. Ma l’attualità di quella triangolazione rimane intatta. Tanto da riproporsi. «E.T., telefono, casa», allora. «Watson, telefono, casa», oggi. Watson, il programma di intelligenza artificiale dell’Ibm, per potersi mettere in contatto con noi ed entrare nelle nostre case dovrà usare il telefono, quello dei call center.
Watson già interagisce con i ricercatori. Ma sarà questa la prima comunicazione tra l’uomo qualunque e l’intelligenza artificiale: uno squillo, una domanda in quello che viene chiamato natural language – sostanzialmente il linguaggio parlato informale e destrutturato con cui comunichiamo in condizioni normali noi esseri umani – e la risposta che promette di rispettarne le non-regole. L’ambizione di Watson è la stessa che per secoli ha consumato l’uomo: la «superbia della mente», «l’orgoglio della parola» e «l’illusione della sapienza» per dirla con le parole di Ubertino da Casale in uno dei primi dialoghi del Nome della rosa di Umberto Eco. In realtà i «computer oggi sono dei brillanti idioti», ammettono John E. Kelly III e Steve Hamm, nel libro Smart Machines. Ibm’s Watson and the Era of Cognitive Computing, edito da Columbia Business School e in corso di traduzione in italiano per Egea. Ma Watson, nato per applicazioni nel campo della salute, sta seguendo i processi di apprendimento di E.T.: all’inizio ha ascoltato e imparato, poi, quando ha acquisito fiducia in se stesso, ha battuto il suo creatore, l’essere umano, nel quiz test Jeopardy!.
Il programma dell’Ibm è come una specie di Google che ha studiato i documenti in rete. «Ho avuto modo di provarlo – racconta a “la Lettura” Giorgio Metta dell’Iit, il padre del robot-bambino iCub (di cui parliamo a pagina 28) – e non offre solo dei link con la loro gerarchia, come potrebbe fare un motore di ricerca, ma tenta di dare una risposta. Per chi fa il mio lavoro è molto importante perché anche in tutta una vita non avrei il tempo di leggere, per esempio, i 100 mila documenti in rete su un particolare materiale che mi interessa». La rivoluzione dell’intelligenza artificiale, al di là degli scenari ansiogeni che può creare, è questa: studia documenti scritti per l’essere umano, li capisce, impara con il tempo. Un metodo di studio usato anche da Google Translator, il programma di traduzione, che ha fatto il salto di qualità anni fa iniziando ad analizzare i documenti dell’Unione europea. Per molti versi oggi internet funziona proprio come la biblioteca del Nome della rosa. Preserva terabyte di documenti che non sempre sono di facile accesso. E Watson è il bibliotecario pignolo e dedito alla conoscenza al quale si possono fare le domande perché conosce la disposizione e i contenuti dei libri.
Per ora le richieste possono essere fatte solo da chi frequenta lo scriptorium, ma con i test tra Telecom e Ibm nei prossimi sei mesi si spera di aprire il dialogo. Questi esperti partiranno da qualcosa che ha poco a che vedere con il mito della conoscenza: capire se la machina sapiens possa essere usata per fini commerciali e per migliorare la customer experience, l’esperienza del cliente nel momento in cui entra in contatto con l’azienda. «Watson – spiega Mario Di Mauro che guiderà la squadra Tim – può intervenire per migliorare questa esperienza: in una chat con il cliente, Watson può aiutare a cercare di capire la domanda nel suo contesto, ma può capire anche l’umore con la tone analysis, segnalando lo stato emotivo del cliente».
In questi ultimi anni le richieste ai call center solo con la digitalizzazione dei processi tradizionali (in sostanza, la possibilità di cercare in rete la soluzione a un problema) sono scese del 10 per cento. «Ma da questa esperienza mi aspetto molto di più. Ed è inutile nascondersi dietro un dito», riconosce quando si affronta l’ansia generata dai robot. Il lavoro nei call center, nato con la campagna di marketing di massa fatta dalla Ford nel 1962, è probabilmente il primo che verrà sostituito dall’intelligenza artificiale. D’altra parte la crisi di quelli che negli anni Ottanta erano stati battezzati pink collar ghetto, per la prevalenza di lavoro femminile in un contesto salariale disagiato, non è un mistero.
Impossibile oggi dire chi sarà il primo cliente italiano ad avere un contatto con l’extraterrestre-Watson. Probabilmente all’inizio interverrà al fianco dell’operatore tradizionale, aiutandolo nelle risposte. Il migliore alleato dell’uomo resta il linguaggio caotico e impreciso che abbiamo sviluppato, in particolare parlando di problemi tecnologici. Di fronte a un cliente arrabbiato che dice di avere avuto un «problema con quel tasto lì rosso che ho toccato quando il telefono mi ha chiesto una cosa, ma io non ho fatto niente e lo schermo è diventato blu», un uomo potrà esercitare l’antica arte della pazienza. Ma Watson?