Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2016
Il primo romanzo di Teresa Crimisi, la donna dell’editoria francese
Una bambina assorbe il silenzio luminoso di un’insenatura marina, tutto è calma e piacere: mangia i ricci che un ragazzo ha pescato poco lontano e intanto ascolta il padre raccontargli che quella spiaggia e quell’ansa di mare – siamo ad Aboukir, Egitto, negli anni Quaranta del Novecento – sono state teatro di una terribile battaglia navale, molto tempo prima. Ma il tempo in quel luogo non conta, e soprattutto non conta la differenza tra ciò che si vive e ciò che si sogna, i guerrieri, le navi in fiamme nel buio della notte, la seduzione dell’avventura: tutto farà parte di uno stesso ricordo. Questa è la scena primaria da cui inizia la storia di una donna destinata a un lungo percorso che la porterà molto lontano dalla sua città, Alessandria, dove il grande poeta Kavafis è morto pochi anni prima della sua nascita proprio nello stesso ospedale e proprio in quella stessa «civiltà moribonda» che ha la speciale caratteristica di contenere in sé «qualcosa di disordinato, di incongruo, di elegante». Quando parte definitivamente dalla sua terra natale per l’Italia – siamo nel 1956, Nasser sta nazionalizzando il canale di Suez – la ragazzina sa solo vagamente cosa troverà dall’altra parte del mare, dopo aver percorso tutta quella distanza. Ma a leggere La Triomphante, romanzo, il primo, di Teresa Cremisi, tradotto ora in italiano dall’originale francese per Adelphi, sembra che l’essenziale di quel viaggio d’addio sia la distanza stessa. La viaggiatrice sa però che, com’è stato per l’antica concittadina Cleopatra, nessun cambiamento, nessuna nuova abitudine potrà «consumare la sua infinità diversità».
Il titolo è un trompe-l’oeil : è la protagonista, o meglio la sua molto somigliante autrice (figura di riferimento di importanti case editrici, tra cui la prestigiosa parigina Gallimard, e di numerose istituzioni francesi e italiane) la “triomphante” del titolo? No, la Triomphante è una goletta, una delle tante disegnate da un avventuroso marinaio francese, che vi si imbarca nel 1841 per la meravigliosa e terribile rotta dei mari del Sud. Cremisi, che ne trova i disegni tra le scartoffie di un antiquario, nel suo racconto la elegge a figura araldica, se non proprio ad alter ego. Perché il libro che ha scritto non è un memoir, né una autobiografia: non una sola delle tante Very Important Persons sicuramente conosciute nel lungo arco della sua carriera è nominata, poche le briciole per gli avvoltoi dei romanzi a chiave. Certo, la lucertola editoriale è Livio Garzanti, tratteggiato in un conciso tragicomico ritratto: «Era avvezzo a quei complicati esercizi che consistevano nel distruggere gli equilibri interni, per poi costituirne altri, da scompaginare di nuovo qualche mese dopo. Si stupiva quando cadeva in disgrazia qualcuno di cui lui stesso aveva provocato la rovina, promuoveva a sorpresa uomini e donne che poco prima aveva demoralizzato e reso più deboli, dichiarando che lui era solo di passaggio e che il potere era nelle nostre mani». Ma non è l’aspetto aneddotico della vita che le interessa. Cremisi si tiene accuratamente lontana dalla sociologia e dalla psicoanalisi come dalla cronaca d’ambiente. Quello che sta investigando è un carattere, il suo, difficile da conoscere perché acquattato, sembra, dietro una biografia pubblica distante dall’identità reale, quella profonda e profondamente nascosta. Il romanzo, che un po’ segue e un po’ si discosta dalla vita dell’autrice, dunque è un autoritratto, ma del volto segreto.
La parola identità è la pietra d’inciampo, cioè il tema su cui tutto il racconto si interroga. Ecco dunque una bella e intelligente ragazza levantina che va alla conquista del mondo occidentale. Per un po’ con lei ci sono i suoi genitori – in una Roma tutta dolce vita e molto chiacchiericcio engagé e in una Milano infinitamente diversa, nella sua indefessa e nebbiosa operosità, dalla solare e indolente Alessandria. Poi la ragazza di grande talento e altrettanto grande spaesamento è sola di fronte al mondo. Se i genitori vanno indietro, rincantucciati nel tempo perduto, lei va avanti, sorretta più che da una precisa volontà da innate risorse. Compresa quella di mimetizzarsi, adattandosi all’ambiente e alle sue aspettative con un singolare tutor per guida, il conte Mosca della stendhaliana Certosa di Parma, che raccomanda al giovane Fabrizio la complessa arte della dissimulazione: «Bastava, commenta Cremisi, che non lasciassi trasparire». Ma anche quando diventa una figura chiave dell’importante azienda francese (qui raccontata come editrice di giornali e non di libri) e può lasciarsi «trasportare dai flutti», il nodo dell’identità non si scioglie. Non si riconosce in quella sessuale o di “gender” («parlo sempre delle donne come se la cosa non mi riguardasse»), e quando a Parigi cominciano le attenzioni alle sue radici ebraiche il disorientamento è ancora più totale: qual è la sua religione, ne ha una? E le origini – così disseminate tra Italia, Egitto, Spagna, India- come, e con quale sentimento, ricostruirle? Né vale un viaggio nella Alessandria contemporanea tutta diversa a riallacciarla a un’ appartenenza: piuttosto di nuovo alla constatazione di una perdita. L’ancoraggio è un altro, i libri letti in gioventù e amati, i grandi scrittori avventurieri come Lawrence d’Arabia o il marinaio Conrad, il nottambulo Kavafis. E soprattutto la lingua, quel francese orientale che a casa parlavano quando Teresa era bambina e che poi lei ha corretto in un idioma perfetto, per la grammatica e per il cuore, quando da adulta si trasferisce nella douce France idolatrata dagli alessandrini della sua infanzia. Ma anche lì niente patria, niente fine esilio: non otterrà l’agognata cittadinanza francese. Non l’identità dunque, al centro dell’esistenza, ma qualcosa di più essenziale: una leggera febbre, la febbre della vita, registrata da un termometro che è quel delicato strumento di conoscenza che chiamiamo malinconia.