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 2016  maggio 08 Domenica calendario

Smash/2. Ridateci Agassi perché il tennis raccontato dagli scrittori rompe le palle (da tennis?)

Sapete qual è il bello di un romanzo autobiografico sportivo? Il fatto che lo scriva un tizio che, lo sport in questione, lo conosce come le sue tasche, perché ha passato la vita a non fare altro, e allora, tendenzialmente a carriera agonistica terminata, si concede il lusso di guardarsi indietro e tirare le fila, di solito con l’aiuto di talentuosi ghost writers e di tanti foglietti svolazzanti – anche detti “dollaroni” – garantiti dall’editore.
Se la stessa operazione viene portata avanti da giocatori della domenica, da individui che hanno distrattamente preso a calci un pallone intorno alla terza elementare e poi mai più, da scrittori rosiconi che sognavano il physique du rôle e invece si sono ritrovati chini sulle sudate carte, bè, capirete bene che la prospettiva diventa assai meno allettante.
Insomma, fuori dai denti: è un buon romanzo Open, eh, per carità, ma punto primo, l’ha scritto Agassi (o i suoi amici fantasmi); punto secondo, tutta la sfilza di dettagli sportivi (punteggi, risultati, linguaggio tecnico, cronaca dei tornei minuto per minuto, elenchi interminabili di cognomi impronunciabili) è tollerabile soltanto a fronte di una storia avvincente e d’ampio respiro. Ci fossero solo quelli, il lettore non-tennista si stuferebbe alla seconda volèe, o come si chiama.
Dunque, proporre una raccolta di racconti brevi (Smash. 15 racconti di tennis, La nave di Teseo, Milano, pagg. 248, € 18,50) intrisi dei tecnicismi di cui sopra e privati di tutto il resto – l’adrenalina, i retroscena, gli strappi muscolari – scritti da aspiranti tennisti falliti, disgraziatamente divenuti scrittori di fama, ci appare come una duplice, spietata, punizione.
Ma perché dobbiamo subire noi le conseguenze delle loro infrante fantasie di gioventù?
Ma perché dobbiamo sorbirci il loro amaro risveglio nello scoprirsi lontani dalle fattezze di Panatta e più affini alle storture leopardiane?
L’amatorialità, poi, con cui codesti autori trattano la materia si manifesta nello spasmodico e irrefrenabile ricorso al cliché: se per Veronesi il doping si presenta sottoforma di «provetta con dentro un liquido verdolino» chiamata “la vitamina” e rifilata ai poveri giocatori prepuberi da dottorini senza scrupoli, per la Stancanelli, il tennis è tutto una vicenda di “magliettine” che aderiscono troppo, “tettine” che si mostrano inavvertitamente e “lolitine” sudate e insopportabili (perdonate la sintesi brutale, ma la Weltanschauung della raccattapalle ci ha messi a dura prova).
C’è poi la Parrella con la sua disamina dell’amante tennista contrapposto all’amante calciatore; la struggente ode al tennis in toscano stretto di Nesi, corredata da informazioni di rilevanza storica («L’avvento dei racchettoni cambiò ogni cosa»); Missiroli e la sua fissa per il legame paterno, snocciolato a colpi di dritti (l’amore filiale) e rovesci (l’autocelebrazione, quel mettersi sempre e comunque in primo piano come vero protagonista della storia); il regista Garrone che avrebbe voluto fare il tennista, ma in fondo cinema e tennis si somigliano, perché per entrambi bisogna «avere determinazione, tenacia, saper superare i momenti difficili» (pazzesco: proprio come per qualunque altra disciplina o fatto della vita).
Ogni racconto affonda nel tempo sepolto dell’infanzia, è infarcito di aneddoti dell’epoca (quella volta che il campione cinese mangiava banane invece di ciucciare Gatorade) e raggiunge un climax intorno a un unico, simbolico, fatto saliente: l’infrangersi al suolo della racchetta.
Ed è a questo proposito che ci permettiamo una riflessione: cari autori di Smash che avete scelto di abbandonare la strada muscolosa dello sport a favore delle gobbe solitarie della scrittura, perché non avete interpretato quel rumoroso crack come una metonimica rifrazione che ricade sulla capacità di sopportazione del lettore?
Perché, cari autori di Smash, non avete visto, dietro quell’eloquente segnale acustico, la rottura non solo dei vostri miti infantili ma anche e soprattutto delle nostre, saltellanti e figurate palle (da tennis)?