la Repubblica, 8 maggio 2016
Nicoletta Braschi racconta com’è vivere e fare l’attrice essendo la moglie di Roberto Benigni
È contenta e ancora un po’ stordita dal pieno di emozioni che ha avuto con Giorni felici, il suo spettacolo, accolto ovunque con applausi e interesse: durante le recite a Roma, al Teatro India, qualche settimana fa, sono anche passati a farle festa Paolo Virzì, Micaela Ramazzotti, Giampaolo Letta, il produttore De Laurentiis, tanti altri amici e adesso che la tournée è finita, sta già progettando di portarlo nelle scuole l’anno prossimo: «Uno sguardo così radicale sulla vita, come quello che ha Samuel Beckett, non crede possa toccare la sensibilità dei giovani?». Nicoletta Braschi parla con voce leggera e accuratezza. Ha cinquantasei anni e un aspetto simpatico: il corpo sottile, il viso piccino, la carnagione bella e senza trucco, i capelli fermati da due mollette, gli occhialini per leggere. E poi c’è la civetteria del rosa, rosa la gonna, il golfino, le scarpe, il cappotto, perfino il copri-iPhone, tutto tra il rosa-Barbie e il porpora, scelta di coraggio ma anche di semplicità che la rende meno controllata, meno prudente di quello che si dice di lei: che ama poco le interviste e i giornalisti, per esempio, e non a torto visto che immancabilmente, dopo qualche domanda, si sente chiedere del suo legame con una gloria nazionale come Roberto Benigni. «Ma no, mi chieda, mi chieda pure», sospira con pazienza, seduta nel suo studio, una grande stanza, in una di quelle case primo Novecento con giardino sull’Aventino a Roma, casa insolitamente spoglia, a parte un tavolo senza oggetti e tre sedie. «Spoglia? Fino a poco tempo fa c’erano alle pareti i manifesti dei nostri film, ma io li tolgo. Me li rimettono e io li risposto. No, non è che non mi piacciono. È che li abbiamo fatti noi. Li conosco a memoria».
Sette sono i film girati con e di Roberto Benigni, suo marito dal ‘91, dal primo Tu mi turbi dell’83, poco dopo che si erano conosciuti, a La tigre e la neve del 2005, tutti successi: basterebbe citarne uno, La vita è bella, tre premi Oscar. Ma molti di più, dodici, quelli che ha girato con Marco Ferreri, Giuseppe Bertolucci, Marco Tullio Giordana, Roberto Faenza, Paolo Virzì che con Ovosodo le diede il bel personaggio della professoressa Giovanna Fornari o Francesca Comencini per cui ha interpretato Anna, la commovente capocontabile mobbizzata di Mi piace lavorare.
Se poi si aggiunge il teatro con Ronconi, Aldo Trionfo e, oggi, con Andrea Renzi e i Teatri Uniti, vuol dire che con intelligenza e passo sicuro si può anche fare l’attrice senza essere sovrastate eternamente dall’ombra di un compagno come Benigni. «Ma Roberto per me è stato una benedizione, una grande benedizione», dice con molta naturalezza. «Non trovo un’altra parola. Aver incontrato lui, esserci legati, aver fatto insieme film per cui le persone, anche le più semplici, ancora oggi ci trasmettono gratitudine... Non so cosa avrei potuto desiderare di più. Voglio dire: sono felice con lui».
Prima di diventare una delle coppie più solide e appartate del cinema, racconta che il loro è stato un contagio sotterraneo, una forza covata, non un colpo di fulmine. «Ci siamo legati nel tempo, conosciuti, frequentati fino a che è nato questo legame che è forte perché siamo cresciuti insieme. Ci incontrammo nel 1980, per caso, attraverso alcuni amici a una cena. Lui aveva ventotto anni, aveva già fatto Cioni Mario in Berlinguer ti voglio bene, era già un attore. Io ne avevo venti, ero ancora al secondo anno dell’Accademia Silvio D’Amico, a Roma. Difficile resistere alla simpatia, all’intelligenza di Roberto, poi siamo andati avanti, ci siamo costruiti insieme la vita e il lavoro, insieme abbiamo fatto il suo cinema. E insieme ancora oggi condividiamo interessi, passioni, lavoro».
I ricordi con Benigni si intrecciano a quelli del “libro degli amici”: «Walter Matthau che conoscemmo durante
Il piccolo diavolo. Nacque un’amicizia profonda, ci ha incoraggiati, sostenuti con affetto personale e professionale». E Jim Jarmush quando preparavano Daunbailò. «Fu Jim con la produttrice Sarah Driver a spingermi verso una casa di produzione tutta nostra e a istruirmi. La Melampo, che nacque nel ‘91, è una delle cose di cui siamo più orgogliosi con Roberto, un microsistema che ci ha fatto diventare indipendenti, ci permette di seguire passo passo i nostri lavori e condividerli con persone amiche, come Elda Ferri. Adesso, per esempio, Roberto vuole fare un nuovo film, quindi ripartirà tutta la macchina. No, non ha ancora il soggetto; quando ha la sceneggiatura lui me la legge, io la critico, ne discutiamo e poi si costruisce il gruppo. A me piace la squadra, non sono una solitaria. Anche in teatro, mi fa piacere lavorare con Angelo Curti, Costanza Boccardi, Andrea Renzi... Dico la verità, fare la produttrice è stato per me un mestiere inaspettato, l’ho imparato, lo faccio, ma io voglio recitare».
In Giorni felici di Samuel Beckett lo fa con un rigore così limpido da sedurre. Bloccata in un cumulo di (finta) sabbia, con alle spalle un compagno silenzioso e strisciante, Andrea Renzi, anche sapiente regista, Winnie-Nicoletta è una donna tragica e grottesca, dissennatamente attaccata alla vita attraverso un tale petulante soliloquio scandito da gesti quotidiani da suscitare tenerezza e qualche inevitabile effetto comico. «La amo tanto, Winnie: parla parla perché ormai non si può dire più nulla. Il testo è una partitura, non puoi sfuggire alle indicazioni dettagliatissime di Beckett. Quante volte nel segreto del buio, la notte, mi ha tormentato, ma adesso è entrata totalmente dentro di me», dice con passione.
Della sua vita sfolgorante, ma anche dei momenti grigi, dolorosi come quando nel 2012 ebbe un brutto incidente d’auto che poteva rovinarle il viso, ha l’orgoglio di essere sempre rimasta coi piedi per terra, segno di radici solide. «Sono nata a Cesena, in una famiglia “normale”, no, nessuna discendenza dal Papa Braschi, Pio VI, e meno male: era un papa un po’ nepotista. Mio papà Guido era stato uno dei fondatori di Confartigianato. Era un uomo cordiale, amico di tutti e ancora oggi trovo persone che mi dicono “Conoscevo bene il tuo babbo”. Quanto a me ero la primogenita, una brava bambina. Poi è arrivato il Settantasette. A Bologna c’erano manifestazioni, concerti, una bella partecipazione dei giovani e io, avevo diciassette anni, ero una di loro. I miei? Diciamo che erano dialettici».
Finito il liceo, prima fugge a New York per studiare recitazione, poi più saggiamente si iscrive alla Silvio D’Amico. «Perché ho voluto fare l’attrice? Amavo il cinema, Lubitsch, Max Ophüls, i fratelli Marx, John Ford, la commedia ben fatta che ancora adesso con Roberto ci piace rivedere... Andavo al Bonci, il teatro di Cesena, a vedere Carmelo Bene... In realtà, avevo bisogno di qualcosa che mi rendesse partecipe dei grandi capolavori. Quando ero piccola se un romanzo mi piaceva ci finivo dentro senza barriere. Recitare mi ha permesso di farlo alla luce del sole. Nel teatro c’è un momento bellissimo in cui capisci che le parole, che sono state mente, anima, carne di un essere umano, dalla pagina scritta ridiventano carne, pensiero, voce, respiro attraverso l’attore. Quel momento, di autentico contatto con l’autore, molto segreto, mi fa venire in mente Juan de la Cruz, il grande mistico, che catturava nella notte oscura i suoi oggetti d’amore. Recitare, ripetere ogni sera la tua parte, ti fa accedere alle porte più segrete della creazione. È una forma di devozione. Ecco perché lavorare per stare accanto ai capolavori, è stata la mia vera conquista». Coraggiosa? «No, incosciente. Sono una che non rinuncia e dalla brava bambina all’adolescente irrequieta, fino all’attrice di oggi, non è poi cambiato molto. Noi Nicolette siamo sempre tutte qua».