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 2016  maggio 08 Domenica calendario

In un libro il film scritto e mai realizzato da Monicelli e Scarpelli. Eccone un estratto

PORTO DI LIVORNO, FEBBRAIO DELL’ANNO 1800
Appena calò la notte scoppiò l’uragano. Il vento fischiava lunghe folate di schiuma nell’acqua del porto. Una raffica di grandine infilò la banchina e investì l’unica, immobile anima viva in quella tempesta, ritta in piedi sul parapetto. Un giovanottello secco e sparuto che indossava una marsina striminzita e zuppa e stringeva tra le braccia uno squadrato pietrone. Non era difficile presagire che stesse per mettere in atto un gesto insano. Già pencolava in avanti, verso le onde tenebrose, quando quella raffica di grandine l’aggredì ancora, ed egli fu costretto a voltarsi per evitare i chicchi in pieno viso. Fu così che il suo sguardo andò a infiggersi sulla dondolante lanterna di un’osteria. Quella vista riaccese nello sguardo stravolto un debole barlume di speranza. Il giovanottello scese dal parapetto. Raggiunse la soglia dell’Osteria e pose la mano sulla maniglia. Da dentro esplose una vociaccia livornese: «Chiudi la porta!».
Il giovanottello aprì il battente replicando: «Me la faccia almeno aprire».
L’oste, tarchiato, con la parannanza bisunta e il tovagliolo buttato sulla spalla, guarda con ostilità il nuovo arrivato.
«Non hai un soldo» stabilisce.
Il giovanottello annuisce: «Complimenti. Un uomo della sua acutezza è davvero sprecato a fare l’oste». Ha un colpo di tosse cavernoso, e viene avanti pisciolando acqua.
«Signor oste, volevo appunto chiederle qualcosina di caldo da mandar giù, che pagherei non appena potrò, sul mio onore. In pegno potrei darle il mio cappello a cilindro. Oppure scelga qualcos’altro di mio».
«Tu non possiedi nulla che valga il meno che potrei darti» dice l’oste.
Il giovanottello sbatte le palpebre: «Sicché?…».
«Sicché nulla» precisa l’oste.
«Un uomo è un uomo! Valgo me stesso, son dunque meno d’una minestra?».
«Sì», dice l’oste «dal momento che tu hai bisogno d’una minestra e la minestra non ha bisogno di te».
«In nome di Dio! La mia vita è appesa a un filo! Lei cosa fa? Lo taglia?».
«Sei te che devi tagliare. Quello è l’uscio. Chiudilo ed esci».
Sospinto oltre che dalla ruvida manona dell’oste, da un abbattimento totale, il giovanottello si avvìa col mento sul petto e non si avvede, come non se n’è avvisto fin qui, che dall’angolo più lontano dell’osteria è osservato dall’unico avventore del locale. Un grande, vecchio viso bianco e rotondo, immerso nel piccolo bagliore della candela, che fa brillare certi suoi occhialetti verdi e dà barbagli di rubino al vino nel bicchiere.
La porta dell’osteria sbatacchia alle spalle del giovanottello, il quale sta per muovere un passo nella pioggia, quando la porta si riapre e balugina il viso dell’oste.
«Signorino?». La sua voce è ingentilita. «Prego, si accomodi. Monsieur Bernardino l’ha invitata a desinare». Con riguardo alza il dito a indicare quell’unico avventore dagli occhialetti verdi, e dal faccione pallido, seduto nell’angolo in fondo, al tavolo presso il caminetto scoppiettante.
«Vuole accomodarsi al mio tavolo, se le pia-mai ce?». Monsieur Bernardino ha una voce lieve e calda. Il suo accento è decisamente francese. Il giovanottello non se lo fa ripetere. Mentre l’acqua piovana gli scola sotto il sedile, il signore gli chiede di domandare all’oste quel che desidera.
*** Il giovanottello mangia, tracanna, ripulisce i piatti con un gran pezzo di schiacciata arrotolata. Il suo benefattore lo guarda con occhi compiaciuti dietro le piccole lenti verdi. «Non ho parole per ringraziarla, signor…».
«Bernardin de Livron, mercante in Livorno».
Il giovanottello piega il capo con finezza, quindi dichiara: «Mi chiamo Niccolò Paganini».
«Artista» dice Monsieur Bernardin.
Che acume! Niccolò è deliziato dalla compagnia finalmente di un gentiluomo; la miseria ti costringe per solito a scambi con gente alquanto torba. «Sì, sono un artista, compongo musica. Suono il violino, e altri strumenti… Ma il violino, ah, signor mio, il violino sopra tutti!». Monsieur Bernardin si compiace, ma repentinamente Niccolò si è rattristato.
«Non l’ho più il mio violino. Perso al gioco della zecchinetta. Del resto non era un gran violino. Pure, nelle mie mani cantava, piangeva e rideva!
Come uno “Stradivario”, che dico, come un “Guarneri”! Con esso ho perduto tutte le mie speranze. Non potrò nemmeno diplomarmi al Conservatorio».
Monsieur Bernardin ha ordinato altri due poncini e intanto Niccolò narra che a soli tredici anni compose delle “variazioni” alla chanson rivoluzionaria La Carmagnola.
«Ma, ahimè, mio padre m’imponeva obblighi di studio assai duri, chiuso a chiave per giorni senza mangiare» si duole Niccolò. «Il padre mio era imballatore al porto di Genova. Col blocco navale dei francesi ci trasferimmo a Livorno. Poi, quando lui tornò a Genova, io rimasi, stufo di liti, botte e fame. La fame però è rimasta».
Il signor Bernardino ha ascoltato il giovane con quella sua espressione gentile e grave a un tempo. Davvero ora lampeggiano i suoi occhialetti verdi, guardate un po’. E a proposito delle sue curiose particolarità, notate che egli ha i piedi praticamente ficcati tra le fiamme, eppure né pigliano fuoco le suole delle scarpe, né egli sembra patire il bruciore?
Dalle due nere figure in conversazione davanti al caminetto si diparte una sola ombra, quella del giovanotto. E quella di Monsieur Bernardin? Non c’è. Possibile?
Neppure la luna riesce a disegnare un pezzetto d’ombra dietro Monsieur Bernardin. Il singolare gentiluomo e Niccolò adesso si vanno accompagnando lungo una stradina del porto. Il gentiluomo porta, oltre al bastone, una grossa borsa da viaggio. Niccolò sta continuando a schiamazzare contro la cattiva stella dei giovani artisti. L’ineffabile messere tenta di consolarlo augurandogli, anzi preconizzandogli, una rapida e brillante carriera. Niccolò ribatte: e quale carriera; che non possiede più neppure il violino? Monsieur Bernardin si ferma. Due piccole lune brillano negli occhialetti verdi: «Vi prego, signor Niccolò, di lasciare che vi faccia una proposizione».
Il gentiluomo ha cavato dalla sacca da viaggio un inaspettato astuccio. Lo apre, contiene un violino col suo archetto. «È un “Guarneri del Gesù”. L’ultimo costruito da Giuseppe, colui che si firmava… come si firmava?».
Niccolò sta guardando lo strumento a bocca aperta. «Si firmava “IHS”».
«Tre bene» approva Monsieur Bernardin. «Sbirci nell’interiore, io la ne prego».
Niccolò si protende: «Ma allora questo è il violino chiamato Il Cannone, per la sua inaudita potenza!».
Niccolò rigira commosso quel leggendario strumento fra le mani, lo liscia, l’annusa. Il suono dello strumento è decisamente prorompente, e quella del giovane violinista è un’abilità trascinante.
«Voi avete molto merito, mio giovane! E lo strumento ne ha così anche! Ma tale violino ha un altro merito ancora e molto segreto, che io sto per dirvi. Voi, dunque, non volete patire sacrifici per guadagnare il vostro successo? Ebbene, con tale violino voi potrete ottenere questo».
«Non giurerei, signore caro, d’aver capito quanto andate dicendo».
Il gentiluomo spiega accuratamente: «Il liutaio Giuseppe Guarneri fu in galera accusato di omicidio. Lì costruì questo strumento intridendolo di una particolarità sua propria assai unica, quella di far balzare il tempo, così da accorciare gli anni suoi di prigionia… Contentatevi di sapere che se voi vorrete far compiere alla vita balzi innanzi, ebbene voi eseguirete con molta attenzione le note che io adesso vi farò sentire».
Il gentiluomo prende ad eseguire una sfilza di tredici note, aguzze e quasi dissonanti, come un lungo spiacevole brivido di spilli di ghiaccio. Quindi restituisce il violino al giovanotto: «Provate».
«Credo d’aver capito soltanto che lei mi vuol far dono di questo violino e…».
«Oh, non “far dono”!» interrompe il gentiluomo. «Voi pagherete il violino, non adesso, più in là, un giorno. Ora dovete solamente suonare le Tredici note. Le ricordate?».
Niccolò riprende il violino. Poggia con cautela l’archetto sulle corde: ed ecco levarsi quelle note penetranti ed aspre… In quel punto si apre una finestra lì sopra, e spiove una voce catarrosa: «Basta con codesta sminfa, fannulloni! Qui ci s’alza presto per andare a lavorare!».
Alla voce fa seguito una gran catinellata d’acqua ghiaccia che investe Niccolò dalla testa ai piedi mozzandogli il fiato, fermandogli il cuore, bloccandogli il tempo e la memoria.
*** … Niccolò ripiglia coscienza, si direbbe subito, in un momento. E invece ha riaperto gli occhi in una gran luce, e le sue orecchie sono investite da un fragoroso applauso.
«Dove mi trovo?» si chiede.
Con la destra tiene il manico del violino prodigioso, nella sinistra ha l’archetto ed è chino in avanti, nell’atto di ringraziare la platea di allievi e maestri del Conservatorio che hanno ascoltato con entusiasmo il suo saggio di diploma. Bravo, benissimo, straordinario, questo ragazzo farà molto parlare di sé!
Egli si sente al culmine del benessere, pur se totalmente smemorato. Muove veloce verso il fondo del piccolo palcoscenico con le code del frac che gli svolazzano dietro. Ma gli applausi non cessano. «Bis, bis, bis!».