la Repubblica, 8 maggio 2016
Ian McEwan risponde alla accuse di plagio con questo racconto
Avrete sentito nominare il mio amico Jocelyn Tarbet, un tempo celebre romanziere, ma suppongo che il suo ricordo tenda a sbiadire. Il tempo sa essere spietato con la fama. È probabile che mentalmente lo associate a uno scandalo quasi dimenticato e alla vergogna. Non avevate mai sentito il mio nome, Parker Sparrow, un tempo ignoto romanziere, finché non è stato associato pubblicamente al suo. Per pochi intimi i nostri nomi restano indissolubili, come le due estremità di un saliscendi. La sua ascesa ha coinciso con il mio declino, pur non essendone stata la causa. La sua disfatta è stata il mio trionfo in terra. Non nego il dolo. Ho rubato una vita e non intendo restituirla. Queste poche pagine valgano da confessione.
Per renderla appieno devo tornare indietro di quarant’anni, all’epoca in cui le nostre vite coincidevano alla perfezione e sembravano destinate a correre in parallelo verso un futuro comune.
Eravamo iscritti alla stessa università e frequentavamo lo stesso corso – letteratura inglese – pubblicavamo i nostri primi racconti su riviste studentesche dai nomi improbabili, tipo Lama nell’occhio. Eravamo ambiziosi. Volevamo diventare scrittori, scrittori famosi, addirittura grandi scrittori. Passavamo le vacanze assieme, leggevamo l’uno gli scritti dell’altro, esprimevamo giudizi generosi con brutale sincerità, ci scambiavamo le ragazze e, in qualche rara occasione, abbiamo tentato di provare interesse per un rapporto omosessuale. Sono grasso e calvo ora, ma all’epoca avevo una testa di riccioli ed ero snello. Mi gratificava l’idea di somigliare a Shelley. Jocelyn era alto, biondo, muscoloso, con la mascella volitiva, l’immagine perfetta dell’Übermensch nazista. Ma non aveva la minima passione per la politica. La nostra relazione era una posa anticonformista. Pensavamo ci rendesse affascinanti. In verità ciascuno di noi provava repulsione alla vista del pene dell’altro. Eravamo ben poco attivi l’uno verso l’altro o assieme, ma ci piaceva lasciar credere che ci dessimo molto da fare.
Nulla di tutto ciò era d’ostacolo alla nostra amicizia letteraria. Non credo che fossimo proprio in competizione all’epoca. Girando indietro, però, direi che io ero partito in testa. Fui il primo a pubblicare su una rivista letteraria vera e propria,
The North London Review. Al termine della nostra carriera universitaria io mi laureai col massimo dei voti, Jocelyn con un punteggio inferiore. Decidemmo che il voto di laurea era ininfluente e tale si dimostrò. Ci trasferimmo a Londra e affittammo due stanze singole in strade limitrofe, a Brixton. Pubblicai il mio secondo racconto e provai sollievo nel momento in cui uscì il suo primo. Continuavamo a vederci regolarmente, a ubriacarci, a leggere l’uno gli scritti dell’altro e a muovere compiaciuti i primi passi negli stessi ambienti letterari alternativi. Iniziammo quasi in contemporanea persino a scrivere recensioni per i giornali nazionali tradizionali.
I due anni dopo l’università videro l’apice della nostra gioventù fraterna. Crescevamo in fretta. Lavoravamo entrambi ai nostri primi romanzi che avevano molto in comune: sesso, caos, un che di apocalittico, un pizzico di violenza, il senso di impotenza allora in voga e l’ironia su tutte le possibili disavventure del rapporto tra un ragazzo e una ragazza. Eravamo felici. Nulla intralciava il nostro cammino.
Poi si frapposero due ostacoli. Jocelyn, senza dirmelo, scrisse una commedia televisiva. All’epoca lo consideravo un genere molto inferiore al nostro livello. Noi pregavamo all’altare della letteratura. La tv era puro intrattenimento, robaccia per le masse. La sceneggiatura venne immediatamente prodotta con due attori famosi come protagonisti, trattava un tema di impegno sociale – i senzatetto o la disoccupazione – che non avevo mai sentito citare da Jocelyn. Fu un grande successo; si parlava di lui, venne notato. Anticiparono l’uscita del suo primo romanzo. Nulla di tutto ciò avrebbe avuto importanza se, in contemporanea, non avessi conosciuto Arabella, la tipica bellezza inglese, abbondante, generosa, calma, uno spasso di ragazza che è ancora oggi mia moglie. Avevo avuto decine di donne prima di lei, dopo di lei nessuna. Arabella rispondeva a tutti i miei bisogni quanto a sesso, amicizia, avventura e antidoti alla monotonia. Tanta passione non fu comunque sufficiente a interporsi tra Jocelyn e me, o tra me e le mie ambizioni. Tutt’altro. Arabella era per natura esuberante, nient’affatto gelosa, espansiva e Jocelyn le piacque dal primo momento.
A cambiare le cose fu che avemmo un figlio, un maschietto di nome Matt. Arabella e io ci sposammo il giorno del suo primo compleanno. La stanza di Brixton dove abitavo non poteva ospitarci a lungo. Ci spostammo ancora più a sud, nel profondo dei distretti postali sudoccidentali di Londra, prima SW12, poi SW17. Da lì si arrivava a Charing Cross con un tragitto di venti minuti in treno, che iniziava solo dopo venticinque minuti a piedi attraverso la periferia. La mia attività di autore indipendente non era sufficiente a mantenerci. Rimediai un incarico di insegnamento part time in un college della zona. Arabella rimase di nuovo incinta, le piacevano le gravidanze. Passai a insegnare a tempo pieno proprio quando uscì il mio primo romanzo. Riscosse plausi e qualche debole stroncatura. Sei settimane dopo uscì il primo romanzo di Jocelyn, un successo immediato. Pur non avendo venduto molto più di me (all’epoca le vendite contavano ben poco), il suo nome aveva già una certa risonanza. C’era fame di una voce nuova e quella di Jocelyn Tarbet era molto più melodiosa di quanto potesse mai essere la mia.
Il suo aspetto e la sua statura (nazista è un paragone ingiusto, diciamo un Bruce Chatwin, con il broncio di Mick Jagger), il turbine di fidanzate ragguardevoli, la MG scassata che guidava, ne alimentarono la reputazione. Se ero invidioso di lui? Non penso. Ero innamorato di tre persone, i nostri bimbi mi sembravano creature divine. Tutto ciò che dicevano o facevano mi intrigava e Arabella continuava ad affascinarmi a sua volta. Ben presto fu incinta di nuovo e ci trasferimmo a nord, a Nottingham. Con l’impegno dell’insegnamento e la responsabilità della famiglia impiegai cinque anni per scrivere il secondo romanzo. Furono lodi, qualcuna in più della volta prima; furono stroncature, qualcuna in meno della volta prima. Nessuno, oltre me, ricordava la volta prima.
Intanto usciva il terzo libro di Jocelyn. Del primo era già stata realizzata la versione cinematografica, con protagonista Julie Christie. Jocelyn aveva un divorzio alle spalle, un appartamento in un’ex scuderia di Notting Hill, molte interviste in tv, molte foto sui rotocalchi. Diceva spiritosaggini e faceva battute feroci sul premier. Stava diventando il portavoce della nostra generazione. Ma la cosa stupefacente è che la nostra amicizia non si indebolì. Certo, la frequentazione si fece più intermittente. Eravamo entrambi molto presi nei nostri rispettivi ambiti. Dovevamo programmare con grande anticipo per riuscire a vederci. Di tanto in tanto Jocelyn veniva a trovarmi a casa. (Arrivati al quarto figlio ci eravamo spostati ancora più a nord, a Durham). Ma in genere ero io che andavo a sud da lui e dalla sua seconda moglie, Joliet. Abitavano in una grande casa vittoriana a Hampstead, proprio accanto all’oasi naturale.
In genere bevevamo, chiacchieravamo e facevamo lunghe passeggiate nella natura. Chi ci avesse ascoltato non avrebbe tratto dalle nostre conversazioni alcun indizio del fatto che lui era la star, mentre le mie prospettive di successo letterario stavano scemando. Jocelyn teneva in conto le mie opinioni quanto le sue; non mi trattava mai con sufficienza. Si ricordava addirittura i compleanni dei miei figli. Quando ero ospite a casa sua mi riservava sempre la stanza migliore. Joliet mi accoglieva con trasporto. Jocelyn invitava una serie di amici, all’apparenza tutti vivaci e piacevoli. Preparava pasti sontuosi. Lui ed io, come diceva spesso, eravamo «una famiglia».
Ma ovviamente c’erano differenze che nessuno dei due poteva ignorare. Casa mia a Durham era abbastanza accogliente, ma gremita di bambini indiavolati, poco spaziosa, fredda d’inverno. Le sedie e i tappeti erano rovinati dal cane e dai due gatti. In cucina si ammassavano i panni sporchi perché c’era la lavatrice. All’aspetto deprimente contribuivano molti arredi in pino rossiccio che non avevamo mai tempo di dipingere o sostituire. Di rado in casa c’era più di una bottiglia di vino. I bambini erano divertenti ma rumorosi e disordinati. Campavamo del mio modesto stipendio e del lavoro part time di Arabella in campo assistenziale. Non avevamo soldi da parte e ci concedevamo pochi lussi. Era difficile in quella casa trovare un posto per leggere un libro. O trovare un libro.
Così era una vacanza dei sensi arrivare a casa di Jocelyn e Joliet per il weekend. La grande libreria, i tavolini che sorreggevano le novità del mese, gli immensi pavimenti in parquet di quercia scuro e lucido, quadri, tappeti, un pianoforte a coda, uno spartito per violino su un leggìo, la pila di asciugamani nella mia stanza, la sua meravigliosa doccia, il silenzio adulto che circondava la casa, la sensazione di ordine e lucentezza che solo una donna di servizio fissa può dare. C’erano un giardino con un vecchio salice, un patìo in pietra naturale ricoperto di muschio, un grande prato e alte mura di cinta. E, più di ogni altra cosa, in quel luogo regnava un’atmosfera aperta, curiosa, tollerante, scherzosa. Come potevo starne lontano? Immagino che dovrei confessare di aver provato un qualche senso di avvilimento, un vago disagio inespresso. A dire il vero non ne ero turbato più di tanto. Avevo scritto quattro romanzi in quindici anni, un’impresa eroica considerando il carico di insegnamento, il mestiere di padre e la mancanza di spazio. Tutti e quattro erano fuori stampa. Non avevo più un editore. Inviavo sempre un’anteprima della mia ultima fatica al mio vecchio amico, con una dedica affettuosa. Mi ringraziava, ma senza mai pronunciarsi. Sono certo che dai tempi di Brixton non aveva più letto nulla di mio. Anche lui mi mandava in anteprima i suoi romanzi. Nove, contro i miei quattro. Gli scrissi lunghe lettere di apprezzamento per i primi due o tre, poi, in nome dell’equilibrio della nostra amicizia, decisi di adeguarmi. Non parlammo né scrivemmo più dei rispettivi libri e andava bene così.
Ci ritrovamma passata la mezza età, sulla cinquantina. Jocelyn era ormai un vanto nazionale e io, beh, non si poteva proprio parlare di insuccesso. Tutti i miei figli erano andati o andavano all’università, io giocavo ancora discretamente a tennis, il mio matrimonio, nonostante qualche scricchiolio e due crisi esplosive, reggeva ancora e girava voce che entro l’anno sarei diventato ordinario. Stavo anche scrivendo il mio quinto romanzo, ma non andava granché bene.
E ora arrivo al nocciolo di questa storia, all’oscillazione cruciale del saliscendi. Erano i primi di luglio ed ero diretto da Durham a Hampstead come facevo spesso subito dopo aver corretto le tesi di laurea. Come sempre ero in uno stato di gradevole spossatezza. Ma non era una visita come le altre. Il giorno successivo Jocelyn e Joliet andavano a Orvieto per una settimana e io dovevo badare alla casa, dar da mangiare ai gatti, annaffiare le piante e sfruttare gli spazi e il silenzio per lavorare alle cinquantotto pagine del mio romanzo ancora informe.
QUANDO ARRIVAI Jocelyn era fuori a fare commissioni e fu Joliet ad accogliermi. Era un’esperta di cristallografia a raggi x all’Imperial College, una bella donna alta e elegante, dalla voce calda e profonda e i modi amichevoli. Ci sedemmo in giardino a prendere il tè e a scambiarci le ultime novità. Ma poi si interruppe e, aggrottando la fronte in modo teatrale, quasi avesse programmato la cosa, mi disse di Jocelyn, di come il lavoro gli stesse creando dei problemi. Aveva terminato la bozza definitiva di un romanzo ed era depresso. Non era riuscito a essere all’altezza delle sue ambizioni, perché quel libro doveva essere un’opera importante. Era annientato. Pensava di non saperlo migliorare e non riusciva a convincersi a distruggerlo. Era stata Joliet a proporre di andare in vacanza per un breve periodo, a fare escursioni a piedi lungo i sentieri bianchi e polverosi intorno a Orvieto. Lui aveva bisogno di riposo e di prendere le distanze dalle sue pagine. Mentre sedevamo all’ombra dell’enorme salice, sua moglie mi raccontò che Jocelyn era stato molto giù. Si era offerta di leggere il romanzo, ma lui aveva rifiutato, con qualche ragione, perché lei non è esattamente una persona versata in letteratura.
«Sono certo che saprà metterlo in sesto se riesce a staccare un po’», intervenni in tono brioso quando ebbe finito.
Partirono la mattina dopo. Diedi da mangiare al gatto, mi feci un altro caffè, poi aprii le mie pagine sulla scrivania della camera degli ospiti. L’immensa, immacolata dimora era silenziosa. Ma continuavo a ripensare alle parole di Joliet. Sembrava così strano che il mio amico collezionista di successi vivesse una crisi di fiducia in se stesso. Ne ero intrigato; in qualche misura addirittura rallegrato. Un’ora dopo, senza aver deciso nulla, mi avviai verso lo studio di Jocelyn. Chiuso a chiave. Sempre senza un’idea precostituita raggiunsi la camera padronale. Ricordavo dove teneva la marijuana ai tempi di Brixton. Non mi ci volle molto a trovare la chiave, in fondo al cassetto dei calzini.
Non ci crederete, ma non avevo un piano. Volevo solo vedere.
Sulla sua scrivania ronzava un’enorme macchina da scrivere elettrica di vecchio tipo, aveva dimenticato di spegnerla. Come tanti nell’ambiente letterario era refrattario alla videoscrittura. Il dattiloscritto era proprio là, seicento pagine in una pila ordinata, lungo ma non smisurato. Il titolo era Il tumulto e sotto vidi scritto, a matita, “quinta bozza”, con la data della settimana prima.
Seduto sulla sedia dello studio del mio vecchio amico iniziai a leggere. Due ore dopo, come in trance, mi interruppi, andai in giardino per dieci minuti, poi decisi che dovevo tornare a lavorare alla mia miserabile bozza. Mi ritrovai invece ancora una volta trascinato alla scrivania di Jocelyn. Restai in piedi esitante, poi mi sedetti. Lessi tutto il giorno, smisi per cenare, proseguii fino a tardi, mi svegliai presto e terminai all’ora di pranzo.
Era magnifico. Di gran lunga la sua opera migliore. Meglio di qualunque romanzo contemporaneo che ricordassi di aver letto. Se dico che l’ambizione era tolstoiana, l’esecuzione aveva accenti modernisti, proustiani, joyciani. Dava spazio a momenti di gioia e di terribile dolore. La sua prosa era più musicale che mai. Sapeva rendere la realtà; ci dava Londra; ci dava il Ventesimo secolo. La caratterizzazione dei personaggi era sconvolgente. I cinque protagonisti erano talmente veri e intensi che mi sembrava di conoscerli da sempre. A volte apparivano persino troppo vicini, troppo reali. Il finale – una cinquantina di pagine – era sinfonico nel suo lento, grandioso procedere, malinconico, sottile, sincero e io ero in lacrime. Non solo per le vicissitudini dei personaggi, ma per l’intero superbo impianto del romanzo, la visione dell’amore, del rimorso, del destino e la profonda empatia nei confronti della fragilità umana.
Mi alzai dalla scrivania. Seguii con sguardo assente un usignolo malconcio che saltellava avanti e indietro per il prato in cerca di un verme. Non lo dico a mia difesa ma anche in questo caso non avevo programmi. Vivevo solo il luminoso riflesso di una straordinaria esperienza di lettura, la sensazione di profonda gratitudine nota a tutti coloro che amano la letteratura.
Ho detto che non avevo programmi, ma sapevo cosa avrei fatto in seguito. Mi limitai a porre in atto quello che altri, forse, avrebbero solo immaginato. Procedevo come uno zombie distanziandomi dal mio operato. Mi dicevo anche che stavo solo prendendo precauzioni, che con tutta probabilità le mie azioni non avrebbero avuto alcun esito. Questo ragionamento faceva da cuscinetto, era una protezione vitale. Ripensandoci ora, mi chiedo se a indurmi siano state le voci di plagio che circolavano su Lee Israel, il Pierre Menard di Borges o Se una notte di inverno un viaggiatore di Calvino. Oppure l’episodio di un romanzo letto l’anno prima,
L’informazione di Martin Amis. So da fonte affidabile che lo stesso Amis ha tratto quell’episodio da una serata passata a bere con un altro romanziere che ora mi sfugge, quello col nome scozzese che però ha l’aria inglese. Mi hanno detto che i due amici si erano divertiti a immaginare tutti i modi possibili in cui uno scrittore può rovinare la vita a un collega. Le cose in questo caso sono andate diversamente. Può sembrare improbabile, dato il seguito, ma quella mattina non avevo intenzione di danneggiare Jocelyn in alcun modo. Pensavo solo a me stesso. Avevo delle ambizioni.
Portai i fogli in cucina e li infilai in una busta di plastica. Presi un taxi e andai al capo opposto di Londra in una strada appartata, in cui sapevo si trovava una copisteria. Tornai indietro, rimisi l’originale sulla scrivania di Jocelyn, chiusi a chiave lo studio, cancellai le mie impronte dalla chiave, la rimisi nel cassetto dei calzini.
Tornato nella stanza degli ospiti, presi dalla mia borsa un quaderno intonso – me li regalano sempre a Natale – e mi misi al lavoro, seriamente. Iniziai a stendere annotazioni per il romanzo che avevo appena letto. Retrodatai la prima voce di due anni. Mi allontanai intenzionalmente dal soggetto varie volte, seguii idee diverse, per poi tornare sempre al filo conduttore della storia. Scrissi di buona lena per tre giorni, riempii due quaderni, abbozzai episodi. Trovai nuovi nomi per i personaggi, cambiai certi aspetti del loro passato, dell’ambiente circostante, i dettagli dei volti. Riuscii a inserire qualche tema minore tratto dai miei romanzi precedenti. Arrivai persino a citare me stesso. Pensavo che New York potesse fare le veci di Londra. Poi mi resi conto che non sarei mai stato in grado di far vivere una città al pari di Jocelyn, così tornai a Londra. Lavoravo sodo e iniziavo a pensare di essere davvero creativo. Quello, dopo tutto, sarebbe stato il mio romanzo quanto il suo.
Nel resto della mia permanenza scrissi a macchina i primi tre capitoli. Qualche ora prima del loro previsto rientro lasciai a Jocelyn e Joliet un messaggio in cui spiegavo che dovevo tornare al nord per una riunione della commissione d’esame. Penserete che sia stato un codardo, che non sia riuscito a guardare in faccia l’uomo che stavo derubando. Ma non è così. Volevo andar via e continuare a lavorare. Avevo già ventimila parole e il desiderio disperato di proseguire.
Una volta a casa dissi ad Arabella la verità, ossia che la settimana era andata benissimo e che lavoravo su una cosa importante. Volevo passare le vacanze estive a svilupparla. Lavorai per tutto il resto del mese di luglio. A metà agosto stampai la mia prima bozza e in giardino feci un falò della fotocopia. Appuntai un gran numero di correzioni sui fogli, le inserii nel dattiloscritto e all’inizio di settembre la nuova versione era pronta. Diciamo la verità, era ancora il romanzo di Jocelyn. Avevo lasciato intatti certi suoi passi geniali, ma c’era abbastanza di mio da consentirmi di provare l’orgoglio del possesso. Avevo sparso sulle pagine la mia identità in polvere. Avevo persino introdotto un riferimento al mio primo romanzo, uno dei personaggi lo legge in spiaggia.
Il mio editore, con «profondo rammarico» mi aveva congedato in occasione di uno dei feroci repulisti della cosiddetta “media tiratura”. Non avevo vincoli contrattuali. Invece che autopubblicarmi su internet scelsi di uscire per la Gorgeous Books, una casa editrice a pagamento di vecchio stampo. Le cose procedettero con allarmante rapidità. Nell’arco di una settimana avevo tra le mani l’anteprima de Il ballo rifiutato. Aveva la copertina violetta, con le lettere dorate in rilievo in carattere ornato e la carta lievemente profumata. Firmai una copia e la spedii per raccomandata al mio caro amico. Sapevo che non l’avrebbe mai letta.
Tutto questo ebbe luogo prima che riprendessi l’insegnamento, a fine settembre. In autunno nel tempo libero spedii il libro agli amici, alle librerie, ai giornali, badando sempre di accludere un bigliettino speranzoso. Affidai alcune copie ai negozi solidali, con l’intento di farle circolare in sordina. Le inserii tra gli scaffali delle librerie dell’usato. Seppi da Jocelyn per email che aveva messo da parte Il tumulto e stava lavorando a un nuovo testo. Sapevo che ormai non dovevo far altro che aspettare – e sperare.
Passarono due anni. Facevo le mie solite visite a Hampstead e evitavamo, come di consueto, di parlare di lavoro. In quel periodo non udii nessuno pronunciarsi su Il ballo rifiutato, a parte mia moglie. Arabella ne fu folgorata ed era indignata e poi furiosa che fosse ignorato. Mi disse che il mio amico famoso doveva fare qualcosa per aiutarmi. Le risposi pacatamente che non glielo chiedevo per una questione di amor proprio. Nelle mie puntate a Londra distribuii altre copie de Il ballo nelle librerie di seconda mano. Per Natale ne erano in circolazione circa quattrocento.
Passarono tre anni tra l’uscita de Il ballo rifiutato e quella de Il tumulto. Come mi ero aspettato gli amici avevano detto a Jocelyn che aveva scritto la sua opera migliore e che doveva pubblicarla. Quando il libro uscì la stampa, come avevo previsto, fu tutta un cinguettìo di voci flautate in estasi. Non mi feci avanti, in caso il processo che avevo messo in moto prendesse il via spontaneamente. Ma siccome nessuno aveva letto la mia versione profumata, non poteva accadere nulla. Fui obbligato a dare una spinta al destino. Inviai la mia creazione in busta anonima a un critico severo e pettegolo del London Evening Standard. Il mio biglietto, non firmato, diceva in carattere Courier 16, «Non le ricorda un romanzo di grande successo uscito il mese scorso?».
Il resto in gran parte lo conoscerete. Era la storia perfetta. Una violenta tempesta si abbatté su casa mia e quella di Jocelyn. Tutti gli ingredienti giusti. Un miserabile infame, un eroe silenzioso. Un vanto nazionale buttato giù dal piedistallo, mani disoneste affondate nel sacco, un vecchio amico caduto in miseria, tradito, interi brani plagiati, plagiato tutto l’impianto del romanzo, i personaggi, nessuna spiegazione plausibile fornita dal colpevole, gli amici ora ne comprendono la riluttanza a pubblicare, decine di migliaia di copie de Il tumulto ritirate dalla vendita e mandate al macero. E il vecchio amico? Animo nobile, si rifiuta di condannare, non con- cede interviste – e, ovviamente, la scoperta di un genio, il miglior libro da anni a questa parte, un classico dei nostri giorni, un uomo mite amato dai suoi studenti e dai colleghi, scaricato dal suo editore, titoli fuori catalogo. Poi la lotta ad accaparrarsi i diritti, tutti i diritti, dei romanzi precedenti e del Ballo, intervento di agenti e aste, coinvolti diritti cinematografici e cineasti. Poi i premi – Booker, Whitbread, Medici, Critics Circle, in un unico lungo chiassoso banchetto. Copie dell’edizione Gorgeous vendute a cinquemila sterline su Abe-Books. Poi, placatosi il polverone, e con il mio libro ancora “in volo”, ponderosi articoli sulla natura della cleptomania letteraria, sulla strana pulsione a farsi scoprire e sugli atti di autodistruzione artistica nella tarda mezza età.
Per email e per telefono fui freddo con Jocelyn. Facevo l’offeso, lasciando intendere di voler rompere i rapporti, almeno temporaneamente. Quando mi disse che era stupefatto, mi schiarii la voce e, dopo un breve silenzio, gli rammentai la copia del romanzo che gli avevo inviato. Come avrebbe potuto succedere altrimenti? Rilasciai infine un’unica intervista a una rivista californiana che divenne la versione ufficiale dei fatti, ripresa dal resto della stampa. Consentii al giornalista di esaminare i miei quaderni di appunti, le lettere di rifiuto, le copie dei biglietti speranzosi che allegavo alle mie edizioni violette. Vide in che situazione di sovraffollamento vivevo, conobbe la mia gioconda e fascinosa consorte, i miei figli simpatici. Scrisse della mia dedizione alla causa superiore della mia arte, della silenziosa riluttanza ad accusare un vecchio amico, di come mi ero abbassato senza lamentarmi a pubblicare a pagamento, della riscoperta di splendide opere precedenti, una vicenda paragonabile al fenomeno John William. Per gentile concessione del settimanale americano fui santificato.
NELLA MIA VITA PRIVATA, tutto si è svolto come da copione. Abbiamo finito per comprare una grande casa antica ai margini di un paesino a tre miglia da Durham. Sui terreni circostanti scorre un fiume maestoso. Al mio sessantesimo compleanno avevo due nipotini in arrivo. L’anno prima avevo accettato la nomina a Cavaliere. Sono ancora santo, un santo esageratamente ricco e sto per diventare un vanto nazionale. Il mio sesto romanzo non ha avuto recensioni molto positive ma le vendite sono a livello della Rowling. Penso che potrei smettere di scrivere. Non credo che a nessuno importerebbe.
E Jocelyn? Un destino altrettanto prevedibile. Nessuno in editoria lo sfiorerebbe più e neppure i lettori. Ha venduto la casa, si è trasferito a Brixton, il nostro vecchio posto, dove, dice, si sente più a suo agio. Tiene lezioni serali di scrittura creativa a Lewisham. Mi fa piacere che Joliet sia rimasta con lui. E tra noi non ci sono problemi. Restiamo uniti. L’ho perdonato completamente. Spesso viene a trovarci e gli riserviamo sempre la stanza migliore, con vista sul fiume, dove ama pescare le trote e remare per chilometri. A volte Joliet lo accompagna. Gli sono simpatici i nostri vecchi amici dell’università, persone gentili e tolleranti. Spesso prepara da mangiare per tutti. Credo che mi sia grato perché ho lasciato cadere ogni sospetto che abbia mai sfogliato quell’edizione violetta e profumata.
A volte, la sera tardi, quando lui ed io, seduti a bere davanti al fuoco (il camino è immenso), riesaminiamo questo curioso episodio, questo disastro, mi ripete la teoria che ha messo a punto nel tempo. Le nostre vite, dice, sono state sempre intrecciate. Parlavamo migliaia di volte di ogni cosa, leggevamo gli stessi libri, abbiamo vissuto e condiviso così tanto che in qualche strano modo i nostri pensieri, l’immaginario, si sono fusi al punto che abbiamo finito per scrivere lo stesso romanzo, più o meno.
Con una buona bottiglia di Pomerol attraverso la stanza per riempirgli il bicchiere vuoto. È solo una teoria, gli dico, ma in buona fede, un’ipotesi benevola che esalta l’essenza stessa della nostra lunga, inossidabile amicizia. Siamo una famiglia.
Leviamo i calici.
Salute!
(Traduzione di Emilia Benghi)
©2016 Ian McEwan/ Agenzia Santachiara
Questa storia è stata ispirata da L’image volée, mostra curata da Thomas Demand alla Fondazione Prada, Milano