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 2016  maggio 09 Lunedì calendario

«Davigo? Un conservatore perbene che vuole il trionfo della giustizia penale. Io preferisco prevenire»; «Le correnti Anm? Un cancro della magistratura» e «Saviano? Un nichilista». Parla Cantone, il presidente dall’Anac

Dotato di metronomo interno, Raffaele Cantone, contiene l’intervista negli orari concordati senza mai angosciarmi guardando l’orologio. Mi riceve puntualissimo, risponde breve e mi accomiata al tocco dell’ora. All’inizio e alla fine si scusa per avere disdetto un primo appuntamento rinviando l’incontro di qualche giorno. Il cinquantaduenne presidente dell’Autorità anticorruzione è un uomo di equilibrata cordialità, che non se la tira e ha con i dipendenti un buon rapporto. Prima di rinchiudersi con me nello studio, dà pacate indicazioni ad alcune persone che rispondono nel modo più collaborativo. Ho subito l’impressione di un tipo tenace ma non muscolare. Il carattere adatto per chi regna su un palazzo di cinque piani, che imbarca trecento persone in quasi altrettante stanze. Tutto è rimodernato da poco, creando un dinamico contrasto con la vetustà dell’edificio, due passi da Fontana di Trevi. Il quinto piano è quello di Cantone. L’uomo non ha nulla di pittoresco. È alto e occhialuto, veste di grigio e trascorre la giornata all’Anac. Il fine settimana, caschi il mondo, torna a Napoli, città che gli ha dato i natali e l’inflessione della voce. Cantone è magistrato da un quarto di secolo e due anni fa, accettando la presidenza dell’Anac, ha chiesto l’aspettativa. Più volte, durante la chiacchierata, dirà che la magistratura è tuttora «la sua casa».
Per otto anni è stato sostituto procuratore, per altrettanti nella Dia non spostandosi mai dalla sua città. Si è occupato soprattutto di camorra. Nonostante abbia abbondantemente bazzicato il diritto criminale e un buon numero di malfattori, non è un patito delle manette e dei rigori carcerari.
«In materia di mafia – ha detto a un certo punto – abbiamo una legislazione durissima. Giustamente, per carità. Ma non mi pare che questo abbia avuto l’effetto di diminuirne i reati».
Soprattutto, non pensa che per prevenire la corruzione negli appalti pubblici – obiettivo dell’Anac – la galera sia la minaccia più utile. Gli manca il temperamento palingenetico di Piercamillo Davigo, presidente An, che vede nel carcere il Dash che ripulisce il mondo. Cantone – con ciò concludo e gli do la parola – è invece per aiutare imprese e burocrati a non cadere in errore e, semmai ci cadano, per espellerli dal giro.
Com’è che la corruzione in Italia è tra le più alte dell’universo?
«Escludo che gli italiani siano antropologicamente corrotti».
Allora, come lo spiega?
«L’Italia nell’ultimo mezzo secolo ha avuto uno sviluppo tumultuoso. La corruzione aumenta quando i sistemi economici sono in evoluzione. Inoltre, la nostra economia dipende molto dalla mano pubblica. Ciò favorisce il malaffare».
Un tedesco qui farebbe altrettanto o ha anticorpi a noi ignoti?
«Rovescerei la domanda. Gli italiani sparsi per il mondo hanno dimostrato un più alto tasso di corruzione degli altri cittadini? La risposta è no».
Perché si ruba imperterriti nonostante arresti a ripetizione?
«Ciò che emerge, è una minima parte della corruzione totale. Il timore di essere puniti è minore che in altri Paesi. Fino a quattro anni di condanna – la media nei casi corruttivi – da noi non si va in carcere».
Più galera certa?
«Meglio introdurre meccanismi di interdizione. Un imprenditore o un burocrate preso con le mani nel sacco deve sparire dagli appalti pubblici».
Diavolo d’un uomo, può chiarire?
«Se ha la certezza di perdere il posto, il funzionario infedele ci penserà due volte. Idem un imprenditore. Se ci fosse un Daspo che lo espelle dal giro pubblico, eviterà le bustarelle. Sono deterrenti più forti di una vaga minaccia carceraria».
Le farragini legali, compresa l’anticorruzione, bloccano lo sviluppo.
«Con l’Expo, abbiamo messo a punto un meccanismo che concilia legalità ed efficienza».
Cioè?
«La “Vigilanza collaborativa” che non solo non ostacola ma lubrifica l’attività d’impresa».
Come avviene?
«Col continuo controllo in corso d’opera della legalità delle operazioni. Dal bando d’asta, ai singoli passaggi».
L’Anac come consulente permanente di imprese e pubblica amministrazione?
«Esatto. Abbiamo moltiplicato i pareri, col proposito dichiarato di aiutare, passo dopo passo, i protagonisti dell’appalto, imprenditore e pubblico ufficiale in buona fede».
Un’Anac amica, contrariamente al Fisco?
«È un fatto che sono le imprese e il loro giornale, Il Sole 24ore, che più appoggiano la nostra attività».
Lei ha definito Milano capitale morale, contrapposta a Roma corrotta.
«Uscivo dall’esperienza positiva dell’Expo in cui avevo lavorato benissimo con Comune e Regione, facendo squadra. A Roma gli anticorpi alla corruzione faticavano invece a farsi strada».
Sei mesi dopo, come stanno le cose nella Capitale?
«Già negli ultimi tempi della giunta Marino e poi con la gestione commissariale, si sono fatti passi avanti. L’eccezionale lavoro del prefetto Tronca sarà di grande aiuto a qualsiasi sindaco governi la città nei prossimi anni».
Dopo la sua nomina, i suoi ex colleghi magistrati hanno arricciato il naso.
«La magistratura ha pregiudizi verso chi esce dai ranghi per assumere compiti amministrativi».
Dicono che ha accettato di fare da paravento alla politica.
«Pensano che chi lascia la magistratura perda la purezza. Ma se sono stato puro con la toga, perché dovrei diventare diverso all’Anac?».
Lo dica lei.
«Pura autoreferenzialità della magistratura. Per loro, solo la funzione giudiziaria mantiene integri».
Perché Matteo Renzi ha scelto lei?
«Non ero suo amico, se intende questo. Se tra noi c’è un rapporto, è nato dopo. A individuarmi per l’Anac fu il premier Letta. Successivamente conobbi Renzi, ancora sindaco, e disse di condividerne l’idea».
E oplà.
«Annunciò la mia nomina in tv da Fabio Fazio. Così, l’ho saputo. Con me, non ne aveva parlato».
Le toghe la considerano un concorrente che si sovrappone alla loro attività.
«L’idea, errata, che la mia prevenzione metta in discussione la loro repressione dei reati. Ma sono due gambe che devono camminare entrambe. Io collaboro con tutte le Procure e quando mi imbatto in un reato lo segnalo subito».
Ci mancherebbe.
«La scelta di un magistrato all’Anticorruzione è una garanzia di buon rapporto con la magistratura. Ma, talvolta, è percepita al contrario».
Le toghe sono ipersuscettibili.
«Alla prevenzione, taluni preferiscono le manette che, però, non risolvono la corruzione».
L’attrito se l’è cercato. Da presidente Anac ha definito le correnti Anm un «cancro della magistratura».
«Lo dicevo già da magistrato. Anche se, dall’interno, mi esprimevo con più cautela».
Il togaio è un nido di vipere?
«In ogni corporazione si creano logiche corporative. Fuori si è più liberi. Da dentro, probabilmente non avrei detto che le correnti sono un “cancro”. Ma una degenerazione, sì. Parole diverse, stesso concetto».
Rompa un altro tabù.
«L’azione penale obbligatoria, che però non è obbligatoria veramente. Detto questo, giudico la magistratura la migliore delle burocrazie di Stato. La considero la mia casa e perciò voglio pulizia. Un atto d’amore, non di odio».
Per Davigo bisogna tentare i politici con agenti provocatori fingendo di corromperli per smascherarli.
«Sono contrario».
Davigo ha detto che lei era d’accordo. Poi ha cambiato barricata.
«Non è vero e mi è molto dispiaciuto. Posso documentarlo. Venti giorni prima, alla Scuola magistrati di Firenze mi ero detto favorevole ad agenti infiltrati, non ad agenti provocatori».
La differenza?
«L’infiltrato previene o denuncia il reato. Il provocatore lo crea. Posizioni culturali opposte».
Chi è Davigo?
«Un conservatore perbene che vuole il trionfo della giustizia penale. Preferisco prevenire».
Anche il suo amico Roberto Saviano da quando ha lasciato la toga, l’attacca.
«È stata la cosa più dolorosa. Da lui, che mi conosceva meglio di tutti, non me l’aspettavo. Mi rimprovera cose senza fondamento».
In che rapporti siete oggi?
«Ci siamo chiariti con lunghi sms».
Potevate telefonarvi.
«Non ho provato questa grande voglia di sentirlo».
Amicizia rotta?
«L’amicizia non è in discussione».
Ma...
«Roberto è diventato nichilista. Un pessimista cosmico che dispera anche delle lotte che furono sue».
Allora?
«Da quel vero intellettuale che è, potrebbe fare del bene al Paese. Abbandonando le responsabilità che si è assunto, può fare male a molti».
Conclusione?
«Questo rimprovero che gli faccio, è più affettuoso e fondato di quelli che lui fa a me».