Corriere della Sera, 9 maggio 2016
Con l’uscita di scena di Al Naimi in Arabia Saudita è finita l’era dei tecnocrati del petrolio
L’ottantunenne Ali Al Naimi era pronto ad andare in pensione, ma avrebbe gradito un’uscita di scena più gloriosa. Di umili origini – pastorello dodicenne, aveva iniziato a lavorare come tuttofare per Aramco dopo la morte del fratello maggiore, e i dirigenti americani ritenendolo intelligente l’avevano mandato a studiare – era arrivato nel 1983 a dirigere il colosso statale del petrolio e nel 1995 a diventare il ministro del Petrolio. Una sua parola a margine degli incontri dell’Opec aveva il potere di influenzare il prezzo del greggio, condizionando il mercato energetico mondiale. Era, insomma, il borghese più importante dell’Arabia Saudita. Fino a sabato, quando è stato sostituito con un decreto reale, senza salamelecchi né spiegazioni.
È successo nell’ambito dell’ultimo maxirimpasto di governo voluto da Re Salman, che ha visto silurati sei ministri, la fusione di diversi dicasteri, la sostituzione del capo della banca centrale con il suo vice. Al Naimi non poteva restare a lungo al suo posto dopo che le sue decisioni erano state contraddette, un mese fa, dal figlio trentenne del re, il principe Mohammed bin Salman, detto «MbS», che, da quando suo padre è diventato re, manovra di fatto le leve del potere economico e militare del Paese. Benché proprio Al-Naimi sia il fautore della politica «muscolare» saudita di protezione della quota di mercato del greggio anche a costo del crollo dei prezzi (il deficit è stato di 100 miliardi nel 2015), un mese fa, all’incontro di Doha mirante al congelamento della produzione petrolifera mondiale, il ministro diede l’impressione di acconsentire anche se l’Iran – l’arcinemico che ossessiona Riad —insiste nell’aumentare il proprio «output». Ma «MbS» è intervenuto dichiarando pubblicamente che senza l’Iran non ci sarà alcun accordo.
L’uscita di scena del «grande vecchio» non cambierà la strategia saudita sul petrolio: Riad è contenta di aver messo in difficoltà i produttori di «shale» americani e, contro l’Iran, si è detta pronta ad aumentare ulteriormente la produzione, costi quel che costi. Ma la caduta di Al Naimi rappresenta il tramonto di un’era perché è finita la relativa indipendenza mantenuta finora dai «tecnocrati» del petrolio.
Il nuovo ministro Khaled Al Falih proviene come Naimi dalla leadership di Aramco ma, diversamente da lui, appartiene alla cerchia di consulenti di MbS. Guiderà un ministero «allargato» dell’Energia, dell’industria e delle risorse minerarie (significativo che manchi la parola «petrolio») che accorpa funzioni prima previste sotto altri dicasteri: avrà il compito di portare avanti buona parte della «Visione 2030», ovvero il programma di riforme presentate a fine aprile dal principe. MbS dice di prestare scarsa attenzione alle fluttuazioni del prezzo del petrolio perché nel giro di 15 anni vuole diversificare l’economia. Collocherà in Borsa il 5% di Aramco, creerà un fondo sovrano da 2 mila miliardi, mira a moltiplicare l’occupazione nei settori di industria e servizi.
Non sarà facile. Il 70% dell’economia dipende dal greggio. Ha piazzato i suoi uomini, ma ha già dimostrato di non avere remore a farli fuori se non porteranno a termine gli obiettivi.