la Repubblica, 8 maggio 2016
Dieci anni senza Unabomber
Che fine ha fatto il seminatore di ordigni del Nord Est? Un grande punto interrogativo bagnato di sangue e condito di sofferenza e rabbia, questo è Unabomber. A 10 anni dall’ultimo attentato, anche il suo lungo silenzio era e resta un caso da manuale. Su questo mister X c’è stata la prima «indagine massiva» in Italia. Partita male, divisa tra quattro procure e venti tra caserme e commissariati, e finita peggio: almeno per ora, va aggiunto, perché certe indagini non muoiono mai.
Quello che si teme è che possa, prima o poi, tornare a colpire. Al culmine della caccia all’uomo lungo il corso del fiume Livenza, si tenne una riunione riservata con il funzionario americano che, dopo morti e feriti, aveva messo le manette al professor Theodore Kaczynski, criminale ecologista, che da Chicago spediva alle UNiversity, attraverso la posta aerea (Airline) le sue BOMbe. L’Unabom dei rapporti Fbi diventò Unabomber sui giornali. L’agente speciale Usa fu molto simpatico con i disperati colleghi italiani: «Anche noi l’abbiamo cercato dovunque e senza esisto. Finché un giorno, dopo l’ennesima rivendicazione affidata alla stampa dal terrorista, è venuto da noi un tipo: “Queste sono le cazzate che mio fratello dice da quando è adolescente. L’avete mai controllato? Era lui».
L’Unabomber italiano non ama la parola, ma il gesto. Non ha mai rivendicato, è un “Nessuno” e vuole esserlo. A totale differenza dell’americano, che sceglieva le vittime tra colleghi e lobbisti, per lui uno vale uno: basta che questo “uno” – soprattutto se bambino, ma non solo – si faccia molto male. Il primo attacco viene fatto risalire dai detective al 21 agosto del ’94, quando a Sacile, alla Sagra degli Osei, scoppia un tubo-bomba e spaventa e ferisce tre persone. Da allora, i suoi ordigni hanno superato quota trenta, sono costati otto feriti gravissimi – con mani perse, vista distrutta, arteria femorale tagliata, coma – e otto feriti meno gravi. Ha già fatto una pausa in passato, tra il ’96 e il 2000. Da lì era scattata una sorta di “fase due”, perché aveva scelto di abbandonare progressivamente la polvere da sparo per darsi alla nitroglicerina e ai complicati inneschi a pressione.
L’ultimo attentato viene certificato nella cornice allegra delle casette di Caorle. Una bottiglia, di quelle classiche da “messaggio del naufrago”, ha navigato sino alla foce del fiume Livenza. È il 6 maggio 2006 e due fidanzati la raccolgono sulla battigia. È bagnata, ma ha resistito alle intemperie e non è innocua: basta stapparla, ferisce molto gravemente lui e lesiona lei. Guidati dall’allora colonnello Luciano Garofano, arrivano per l’ultima volta sul “caso Unabomber” i Ris: eseguono ogni rilievo e studiano per ore la scena del crimine, poi se ne vanno. Qualcuno la sera bussa in caserma: «Scusate, vi siete dimenticati questo». Era un dito del fidanzato.
Per quanto macabro e surreale, il dettaglio non va nascosto perché, comunque la si pensi sulla polizia scientifica e sul suo peso eccessivo o meno nelle indagini moderne, si è giocata in laboratorio e non in strada la colpevolezza e l’innocenza dell’unico imputato, l’ingegnere aeronautico Elvo Zornitta. E il suo destino s’è incrociato indissolubilmente con quello di un investigatore, l’assistente capo Ezio Zernar, quotato perito balistico. Zernar-Zornitta diventano un binomio da quando un ex collega della Oto Melara segnala Zornitta come «possibile sospetto». In quel momento, tra Veneto e Friuli ci sono state circa duecento perquisizioni. Dai “fuochini” dei giochi pirotecnici agli ex militari, ai pregiudicati, sono state «attenzionate» quasi duemila persone. Vari ipotetici Unabomber sono stati via via scagionati. Uno ha persino scritto un libro sull’esperienza. Zornitta vive nella zona, conosce gli esplosivi, è un drago del bricolage e per un’altra serie di dettagli che è inutile oggi ripetere, viene «attaccato».
Nella perquisizione, che avviene pochi mesi dopo la scoperta di un ordigno nascosto nell’inginocchiatoio di una chiesa e scoperto dalla perpetua, gli investigatori gli trovano in casa la gran parte degli oggetti necessari alla fabbricazione degli ordigni già esplosi o che esploderanno in futuro. Da un lievito “Pane degli angeli” agli ovetti Kinder.
Dietro le quinte, tra i magistrati inquirenti, ci si spacca: qualcuno pensa che ci sia materia sufficiente per ottenere l’arresto, altri nicchiano. Un’idea per accertare meglio la situazione viene a Zernar, al lavoro in un ufficio aperto dal magistrato Vittorio Borraccetti nel tribunale veneziano. Se sul fondello del bossolo il percussore della pistola lascia un segno inconfondibile, allo stesso modo un metallo lascia un segno particolare se un altro metallo. Queste tracce inconfondibili, i “toolsmarker”, in America sono usati da tempo e hanno valore forense. Tra gli ordigni inesplosi c’è un piccolo pezzo di lamiera. Il “lamierino” è stato tagliato da un paio di forbici di Zornitta? Zernar fa le sue analisi dice di sì: lo dice ancora adesso che è stato condannato sino alla Cassazione per aver falsificato le prove. Viceversa Zornitta ha spiegato che finalmente, come diceva lui, è emersa la verità: lui non ha mai avuto nulla da nascondere e ha dato ampia collaborazione, segnalando anche la prova “taroccata”. Alla sofferenza delle vittime, va dunque aggiunta la sua sofferenza di accusato ingiustamente: questo dice chiaro e tondo la sentenza.
Non possiamo però far finta che una coincidenza diabolica non aleggi su una storia così straordinaria e abbia un eterno ritorno tra gli investigatori: da quando Zornitta è finito nel mirino, gli attentati sono finiti. Non esplodono più quegli inquietanti oggetti comuni, da bambini, che hanno cambiato per sempre molte vite. Dalla bombola di stelle filanti alle bolle di sapone, dai tubetti di salsa e di maionese a un uovo fresco, sostituito da uno sodo esplodente. Dalla scatola mortale infilata sotto il sellino della bici di una pendolare all’ovetto Kinder che, per fortuna, viene preso a calci dai ragazzini di una scuola vicina e scoppia contro un muro. Dai ceri nel cimitero o in chiesa alla bomba nel palazzo di giustizia di Pordenone.
O, come successe il 25 aprile del 2003, dal semplice pennarello con microcarica piazzato sulla base del ponte a San Biagio di Callalta. Una bambina di 9 anni, Francesca, lo raccolse, restando gravemente mutilata: «Ho pensato a una vecchia bomba nel fiume», raccontò un testimone. In riva al Piave da una parte c’era chi piangeva, dall’altra chi bestemmiava perché le pale dell’elicottero gli avevano sporcato la carne del barbecue. In una cosa il “Nessuno” del Nord-est ha sicuramente fallito: non ha seminato il panico, ogni famiglia ha pianto i suoi feriti, il resto delle persone non sono mai state troppo distolte dall’indifferenza.