Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  maggio 06 Venerdì calendario

Il magistrato Morosini, membro del Csm, attacca Renzi e poi ritratta. Polemiche

Solo sette giorni fa, dopo la prima tempesta stagionale innescata dall’intervista al Corriere del giudice Davigo sui «politici che ora neanche si vergognano di rubare», il capo dello Stato aveva formulato un preciso «avviso ai naviganti» che non è stato ascoltato. «Vanno rispettati i confini delle proprie attribuzioni, senza cedere alla tentazione di sottrarre spazi di competenza a chi ne ha titolo in base alla Costituzione», aveva detto Sergio Mattarella che poi è anche presidente del Consiglio superiore della magistratura (Csm).
Sette giorni dopo, proprio nel cuore del Csm è scoppiata una seconda, violenta tempesta. Il membro togato Piergiorgio Morosini (corrente di sinistra, Area-Md) ha dovuto smentire in plenum una intervista-colloquio pubblicata dal Foglio e titolata così: «Perché Renzi va fermato... C’è il rischio di una democrazia autoritaria...». Morosini, ex gip di Palermo che si è occupato anche della presunta trattativa tra Stato e mafia, ha confermato di avere parlato a Palazzo dei Marescialli (anche dell’impegno a fare campagna per il No al referendum costituzionale) con la giornalista Annalisa Chirico. Ma il giudice ha escluso la più grave delle invasioni di campo: «Non ho mai detto che “Renzi va fermato”».
La smentita, però, non è stata sufficiente a far tornare la calma piatta al Csm, anche perché in quel momento si stava discutendo ancora della richiesta (poi ridimensionata) del laico Giuseppe Fanfani (Pd) di aprire una pratica sull’operato del gip che ha spedito in carcere il sindaco dem di Lodi. Insomma, per il «togato» Luca Palamara (Unicost) «i contenuti dell’intervista di Morosini lasciano sbigottiti». Per il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini «sono inaccettabili gli attacchi ad esponenti del governo e del Parlamento» e «non è opportuno che un consigliere del Csm partecipi a una campagna sul referendum costituzionale». Di tutto questo Legnini ha già parlato con Mattarella e (nel pomeriggio, a Napoli) anche con il Guardasigilli Andrea Orlando che aveva chiesto formalmente chiarimenti al Csm. Per ora, dal Quirinale non c’è alcun segnale di un plenum straordinario del Csm alla presenza del capo dello Stato.
Davide Ermini (Pd) pone una domanda retorica sui magistrati: «Domani dovrei farmi giudicare da uno che ha preso una posizione politica contro di me?». Walter Verini (Pd) definisce quello di Morosini «un infortunio serio». A difendere il giudice ci pensa Magistratura democratica. E strumentalmente, lo fa il senatore Roberto Calderoli (Lega): «Condivido, Renzi va fermato».
Piercamillo Davigo, presidente del sindacato dei magistrati (Anm), prova a minimizzare: «Non mi sembra che la febbre stia aumentando, c’è normale dialettica. Un Paese dove le decisioni delle corti piacciono sempre ai governi non è un luogo dove si vorrebbe vivere». «Deluso», invece, il primo presidente della Cassazione, Giovanni Canzio, membro di diritto del Csm: «Non è stato ascoltato l’accorato appello all’osservanza dei doveri di riservatezza, discrezione, sobrietà nei rapporti con la stampa».

Dino Martirano


***

«Questa sentenza dimostra che si può avere fiducia nella giustizia, ci sono ancora giudici a Berlino», commentò l’ex presidente della Provincia di Palermo Francesco Musotto, esponente di Forza Italia, dopo l’assoluzione in primo grado (poi confermata in appello e in cassazione) dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Uno di quei giudici era Piergiorgio Morosini, una «toga rossa» appartenente a Magistratura democratica come l’allora capo della Procura (che aveva fatto arrestare Musotto e chiesto la condanna) Gian Carlo Caselli. Lo stesso accadde con il magistrato Corrado Carnevale, «l’ammazzasentenze» imputato dello stesso reato. Anni dopo Morosini prosciolse un imprenditore che aveva mentito negando le minacce e le estorsioni mafiose, giustificandolo per «lo stato di necessità» provocato dai timori di ritorsioni, attirandosi le critiche del procuratore dell’epoca, Pietro Grasso.
Naturalmente ci sono state anche le condanne, ai mafiosi come ad altri politici accusati di complicità con Cosa nostra (il democristiano Francesco Gorgone), e i verdetti ribaltati nei gradi successivi: per esempio l’assoluzione della professoressa che fece scrivere allo studente «sono un deficiente» per cento volte sul suo quaderno. Ma questa è solo l’attività professionale del giudice Morosini, 52 anni, originario della riviera romagnola ma palermitano da oltre un ventennio: sbarcò in Sicilia durante la «riscossa giudiziaria» seguita alle stragi del ‘92, dopo un periodo di uditorato alla Procura di Roma, e non se n’è più andato.
Poi c’è l’attività «politica» di un magistrato che ha sempre militato in Md fino a diventarne segretario, carica che lasciò quando fu chiamato a decidere il destino degli imputati per la presunta trattativa fra lo Stato e la mafia (uno lo ricusò per un libro sui rapporti tra Cosa nostra e le istituzioni nel quale avrebbe anticipato il giudizio, ma senza successo: la Cassazione disse che non era vero). Morosini si dimise da segretario delle «toghe rosse» per la mole di lavoro che si trovò davanti, ma anche per non dare etichette alla scelta che avrebbe fatto. Optò per il rinvio a giudizio di tutti gli accusati, dopo un’integrazione d’indagine e stilando un puntiglioso elenco delle «fonti di prova» tralasciato dalla Procura.
Al Foglio avrebbe detto che su quella vicenda «i pm non hanno osato abbastanza, certi filoni dell’inchiesta non sono stati approfonditi», ma lui smentisce. Quella frase come le altre. «Quando ho voluto prendere posizioni anche scomode – ha spiegato ieri ai colleghi del Csm —, attraverso interviste e interventi scritti, l’ho fatto con chiarezza e assumendomene tutte le responsabilità; ma stavolta non è andata così». Il «colloquio informale» con la giornalista s’è trasformato in una «presunta intervista» piena di «affermazioni mai fatte». Questo ha detto in plenum Morosini, per spiegare ai consiglieri ciò che era successo. In privato, a chi conoscendolo e stimandolo gli chiedeva chiarimenti, ha confessato di essere caduto in una trappola, ammettendo un po’ d’ingenuità. Confermando però che il suo pensiero e le sue parole, «mai pronunciate o riportate in parte, fuori contesto, sono state travisate».
Le posizioni «scomode» rivendicate dal consigliere finito sulla graticola si riferiscono alla difesa del presidente dell’Anm Davigo, a dispetto delle prese di distanza di Area, il suo gruppo. E poi il «no» al referendum costituzionale, appoggiato espressamente da Md ma non da Area. Un raggruppamento nel quale Morosini sostiene posizioni distinte da altre, che dentro al Csm (e dentro la pattuglia di Area) rappresentano una minoranza. S’è visto quando, con il compagno di corrente Lucio Aschettino, non ha votato per la nomina del primo presidente della Cassazione Giovanni Canzio, ritenendola non conforme alle regole che s’è dato il Csm; o quando ha redatto il parere sulla legge anticorruzione del governo Renzi con diversi accenti critici («sporadici e frammentari interventi» che diventano «insufficienti per la loro disorganizzati», aveva scritto), che provocarono le ire del Partito democratico. Com’è accaduto ieri. In sintesi si potrebbe dire che Morosini rappresenta l’anima della sinistra giudiziaria contraria al «Partito della nazione», o al «patto del Nazareno»; e forse anche da qui è nata la «presunta intervista» al Foglio.
Giovanni Bianconi