Corriere della Sera, 6 maggio 2016
Non accetta le riforme di Erdogan, si dimette il premier turco Davutoglu
Ahmet Davutoglu è sempre stato considerato l’ombra di Recep Tayyip Erdogan. Negli anni alcuni lo hanno definito il suo braccio destro, altri il suo burattino, altri ancora un mero esecutore. Ma ieri il premier turco, 57 anni, ha spezzato quel sodalizio con il suo mentore iniziato nel 2003 quando lui, professore universitario in studi mediorientali, diventò consigliere di Erdogan, allora reduce dalla sua prima vittoria elettorale e alle prese con il primo governo targato Akp. «Nelle circostanze attuali non penso che sarò candidato alla carica di segretario del partito nel prossimo Congresso», ha detto Davutoglu annunciando di fatto le sue dimissioni. «La mia decisione è frutto di una necessità più che di una scelta», ha aggiunto assicurando, però, eterna «lealtà al presidente».
Un terremoto per la Turchia già alle prese con la crisi siriana, gli attentati kamikaze, il conseguente calo del turismo, la disoccupazione e il problema curdo. Una preoccupazione in più per l’Unione Europea che con Ankara ha firmato un accordo sui migranti fortemente voluto dal premier costretto, paradossalmente, a lasciare due giorni dopo aver incassato la raccomandazione della Commissione Ue a Consiglio e Parlamento europeo per la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi nell’area Schengen.
I due politici non potrebbero essere più diversi. Erdogan carismatico ma dai modi autoritari ed aggressivi. Davutoglu il professore mite, fautore del «neo-ottomanismo», che quando era ministro degli Esteri aveva coniato lo slogan «zero problemi con i vicini» ma aveva finito per litigare con tutti o quasi. È stata proprio la voglia di autonomia, l’alzare la testa a costare il posto a Davutoglu. Lui, che deve tutta la sua carriera al presidente, ha osato discostarsi dal percorso tracciato: sui migranti, sui curdi, sulla libertà di stampa ma anche sulla riforma costituzionale in senso presidenziale che, secondo molti, di fatto non ha mai favorito. Erdogan non poteva accettare la ribellione della sua creatura e così venerdì scorso, lo ha fatto umiliare dal direttivo del partito che gli ha negato il potere di assegnare l’incarico ai capi delle sezioni provinciali. «Non bisognerebbe mai dimenticare come si è ottenuto il proprio posto» ha detto il presidente.
Ora, con tutta probabilità, il presidente nominerà un premier più docile. Tra i nomi che circolano c’è quello del ministro dei Trasporti Binali Yildirim, del responsabile della Giustizia, Bekir Bozdag o di Berat Albayrak, genero del presidente e ministro dell’Energia. Ma il dissenso all’interno dell’Akp continua a crescere dopo le critiche manifestate dall’ex presidente Abdullah Gul e dall’ex vice primo ministro Bulent Arinc. Erdogan ha davanti una partita difficile: convincere 367 deputati della necessità di una riforma costituzionale in senso presidenziale. Altrimenti in autunno si andrà a nuove elezioni, una decisione che sarebbe un segno di grande instabilità visto che l’anno scorso si è già votato due volte: il 7 giugno quando l’Akp perse per la prima volta la maggioranza assoluta e il 1° novembre quando riuscì sorprendentemente a riconquistarla.
In questo panorama l’opposizione appare priva di appeal. Ieri il leader del partito kemalista, Kemal Kiliçdaroglu, ha gridato al «golpe di palazzo» contro la democrazia da parte di un presidente che dovrebbe essere super partes. Ma sono sembrate solo parole al vento.